Il tenente dimenticato

Il tenente dimenticato - Mario Cantoresi

Il tenente dimenticato di Mario Cantoresi –

La Grande Guerra sconvolge la vita di un giovane come molti costretto ad abbandonare la sua famiglia e la sua vita per andare a combattere in trincea. La bellezza di questo racconto poetico e toccante non si limita però ai soli accadimenti che vive il protagonista ma sta anche nel modo in cui la sua storia –  che è una storia vera basata su fatti realmente accaduti – è venuta alla luce cento anni dopo la sua morte.

Tutto ha inizio il giorno in cui l’autore, Mario Cantoresi, si reca al cimitero di Rakoskeresztur a Budapest con un’amica che gli indica la lapide di un soldato italiano del quale sua nonna si era innamorata.

Il cognome del soldato, Cavasinni, è certamente un cognome marsicano e così Cantoresi s’incuriosisce e decide di fare alcune ricerche che, cinque anni dopo, lo porteranno a scoprire che quel soldato era proprio originario della sua Celano. A questo punto l’autore non può più arrestare la sua ricerca e così, frugando archivi civili e militari, trova i discendenti dei personaggi italiani e ungheresi di questa incredibile storia, rintraccia la tomba della moglie del tenente e scopre persino la casa ancora intatta in cui Cavasinni aveva vissuto prima di partire soldato.

Cento anni di oblio fino a quando, per la prima volta, la storia del tenente dimenticato viene raccontata in un romanzo che parla di amore e sogni infranti, di coraggio e terrore in un Abruzzo devastato dalla Grande Guerra e dal terremoto del 1915.

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Il tenente dimenticato:

Premessa

Il Secolo breve.

Questo è stato il Novecento secondo lo storico inglese Eric Hobsbawn.

Secondo la sua teoria, infatti, l’estensione spazio-temporale del XX Secolo è stata di soli settantotto anni e, più precisamente, dal 28 giugno 1914 – data dell’assassinio, a Sarajevo, dell’Arciduca d’Austria, Francesco Ferdinando, erede al trono di Casa Asburgo – al 28 giugno 1992, allorquando, dopo la disintegrazione del blocco Sovietico, l’allora Presidente francese, François Mitterand, nella stessa città bosniaca da dove tutto aveva avuto inizio, invocò per il mondo «Una nuova e duratura pace.»

È questa una chiave di lettura affascinante e opinabile.

A seconda dei punti di vista.

L’unica certezza è l’estrema difficoltà nel voler interpretare gli eventi epocali del Mondo, partendo dalla loro grandiosa e drammatica complessità.

Molto meglio, allora, cercare di comprenderli seguendo le vicende dei singoli uomini che li vivono. Anzi, che nella stragrande maggioranza delle volte, li subiscono.

«Il terremoto, come la guerra è una grande storia che fonde in sé tante altre piccole storie», dice molto saggiamente Zenaide, una delle protagoniste di questo libro, a suo marito Filippo.

Ma il Tenente Filippo Neri Adriano Cavasinni, proviene da ancor più lontano: egli è un uomo dell’Ottocento e, se risponde al vero l’assunto di Hobsbawn, vive solo quattro anni, quindi paurosamente meno della sua già breve vita.

Forse per questo motivo viene dimenticato.

Però la Storia, quella con la S maiuscola, non si ferma davanti ad una tomba e, quindi, da Filippo nascono e si sviluppano mille altre vicende che porteranno al suo ritrovamento.

Una cosa però si può tranquillamente affermare: egli è testimone dei cambiamenti radicali dell’umanità pur non avendoli mai visti, neppure una volta, in prima persona.

Nasce dopo il prosciugamento del terzo lago più grande d’Italia, non è presente durante il terribile terremoto di Avezzano, non partecipa alla battaglia di Caporetto, ma viene ferito mortalmente in seguito a quella disfatta.

Non vede neppure le acque del Danubio, ma davanti alla sua tomba al cimitero di Rakoskeresztur a Budapest passa per intero tutta la drammatica storia ungherese: da Horty, a Rakosi, da Kadar fino alla riconquistata libertà del popolo magiaro, evento legato a doppio filo alle attuali vicende dell’Europa contemporanea.

Io ho amato questa storia vera in maniera incredibile. Chi avrà la pazienza di leggerla capirà quanto impetuoso sia il corso del destino e come noi uomini, di fronte ad esso, siamo ben poca e misera cosa.

Capitolo I

Celano 1888

Doveva esserci molta neve a Celano quel 27 dicembre 1888.

Allora ne cadeva molta più di oggi e, sicuramente, doveva essere anche più bianca e pulita di quella di adesso.

Era un giovedì pomeriggio. Filippo nacque esattamente alle 15:10 e il suo pianto di benvenuto alla vita fu considerato da suo padre, Giovannantonio Cavasinni, come la più bella melodia che mai essere umano avesse avuto modo di ascoltare prima di allora.

Fu un’emozione così intensa e incontrollabile che portò quel giovane uomo a uscire di casa e a correre come un pazzo fra la neve alta che copriva i ciottoli dei vicoli gridando: «È nato il mio primo figliolo… è una promessa di futuro per il mondo e crescerà con il nuovo secolo: il Novecento, l’alba di un tempo migliore per tutta l’Umanità.»

Sembrava un bambino: correva e gridava, cadeva e rideva, immediatamente si rialzava e subito riprendeva a correre.

Aveva fretta di raggiungere due destinazioni ben precise e non molto distanti dalla sua abitazione di via Ciavattella: il municipio del paese e la casa parrocchiale. Doveva assolutamente andare in entrambi i posti, perché un cucciolo d’uomo è una speranza per tutta la comunità e ogni nuova vita è un intero manifesto di programmi da realizzare.

Artista, letterato, inventore o forse medico: chissà cosa sarebbe potuto diventare suo figlio…

Per questo motivo era importante registrare subito la sua nascita sia all’archivio dello Stato Civile sia sul grande libro dei nati del 1888 che, insieme con i libri degli anni e dei secoli precedenti, veniva gelosamente custodito nelle alte scaffalature della sacrestia della parrocchia di San Giovanni.

Fu così che quel lontano pomeriggio due severi notabili, uno laico e uno religioso, registrarono, in elegante grafia e con svizzera precisione, quella nuova nascita.

Il funzionario civile si chiamava Alessandro Venditti; con burocratica calma pulì i suoi occhiali e, chinando il capo, trascrisse l’atto in stile sintetico e asciutto ma in perfetto italiano.

Il curato della collegiata di San Giovanni, invece, si chiamava don Costanzo. Alla vista di Giovannantonio nascose in una delle due ampie tasche della tonaca – per quanto gli fu possibile – la restante parte di un frugale pasto a base di pane e formaggio e assunse un atteggiamento pomposamente solenne. Con le molliche di pane sparse sull’abito talare, ma altero e composto, andò a sedersi dietro un vecchio scrittoio e vergò il suo documento in un impeccabile latino perché, va bene la gioia del padre, ma che diamine! L’aspro conflitto fra l’italico Stato dell’incolto re piemontese e l’universale Chiesa del Santissimo Papa di Roma era pur sempre in corso e, quindi, le distanze politiche e culturali esistenti fra il braccio secolare e quello temporale dovevano essere rigorosamente mantenute ed evidenziate a tutto vantaggio di quest’ultimo.

«Ricorda sempre e non dimenticarlo mai», disse in tono grave il prete «il papa parla con il Padre Eterno, il re, invece, lo fa soltanto con i suoi ministri, che nella maggioranza dei casi non sanno neppure cosa rispondere.»

«D’accordo!» disse l’uomo «Fate pure come meglio credete, don Costanzo. Tanto l’unica cosa che veramente conta è che il nome di mio figlio compaia in tutti e due i registri perché, vedete, io sono nato sotto il Regno Borbonico, ma Filippo, invece, è il primo italiano della nostra famiglia ed è anche cattolico.

Un giorno ci sarà qualcuno che andrà a consultare queste carte per sapere tutto di lui ed è importante che quell’anima del futuro abbia ben chiaro ogni singolo aspetto che lo riguarda.»

Poi Giovannantonio corse ancora e anche più forte di prima. Desiderava tornare a casa, a godere del sorriso della moglie Rosina e dei primi vagiti di Filippo. Solo a notte fonda riuscì finalmente ad avere un momento di solitudine e di riflessione. Era molto tardi, ma non aveva sonno. Si sentiva così bene nella calda e confortevole penombra del camino che lentamente stemperò la nervosa euforia che aveva caratterizzato le ore precedenti e mise ordine nei suoi pensieri. Ormai era padre e nell’arco dei suoi ventotto anni di vita il mondo in cui era cresciuto e che aveva imparato a conoscere era completamente cambiato. A Celano già da tempo non esisteva più il grande lago che aveva riempito le fantasie della sua infanzia. Un ricco banchiere incaricato dal primo re d’Italia l’aveva prosciugato, facendo emergere al suo posto fertili terre che avrebbero dovuto garantire benessere e prosperità, se non ai contemporanei, certamente alle generazioni future. Era in pratica riuscito nell’impresa in cui gli antichi imperatori romani, nella loro onnipotenza, avevano miseramente fallito. Per questo suo successo aveva ottenuto da Vittorio Emanuele II il titolo di Don Alessandro Raffaele Torlonia Principe del Fucino.

E anche lo stato borbonico dov’era nato e dove a sua volta era stato registrato non esisteva più.

Il 5 maggio 1860, ovvero sei mesi prima della sua venuta al mondo, tal Giuseppe Garibaldi da Nizza, di professione condottiero, insieme con altri Mille eroi partiti dalla spiaggia di Quarto al grido di «O si fa l’Italia o si muore!», fu talmente volitivo e tenace nella sua azione che, piuttosto di trapassare, realizzò la prima delle due opzioni che si era prefissato. E poi la capitale del regno che sembrava volesse viaggiare per ogni angolo della penisola: Torino, Firenze, Roma…

«Quante cose sono cambiate in così poco tempo…» pensò Giovannantonio «…e chissà quante altre ne cambieranno ancora» aggiunse immediatamente a quella prima considerazione.

Le trasformazioni del mondo erano diventate troppo veloci per lui e, nonostante avesse meno di trent’anni, sapeva bene di appartenere a una categoria di uomini ormai ampiamente superata dai tempi. Fortunatamente poteva contare su una solida agiatezza economica, che già da due generazioni era ormai ampiamente consolidata. Suo nonno, infatti, era stato un abile fornaio che, oltre alla riconosciuta abilità nella sua arte, aveva sviluppato uno spirito imprenditoriale e commerciale decisamente al di sopra della media per quei tempi.

Costanzo Cavasinni era nato nel lontano 1782 nel borgo rurale di Cese, sulla sponda occidentale del lago del Fucino.

A quel tempo Avezzano era solo un piccolissimo villaggio di pescatori, mentre la favorevole collocazione geografica di Cese consentiva di raggiungere Roma e, di conseguenza, il Vaticano, molto più facilmente rispetto agli altri centri della Marsica.

Per questo motivo la sede del vescovado, un grande seminario e due solidi conventi dove pregavano e lavoravano più di mille religiosi, furono fatti costruire a Cese «per espressa volontà papale.»

Lo status quo raggiunto dal borgo palentino, però, non durò moltissimo. Ben presto dalla sponda opposta del bacino lacustre le comunità di Pescina e Celano rivendicarono con veemente ostinazione una comprovata e testimoniata supremazia storico-politica, verso la quale nessuna obiezione poté opporre la plebea Cese. Fu così che la sede vescovile e il seminario finirono d’ufficio nella città di Mazzarino, mentre i conventi e gli ordini religiosi, con tutti gli annessi e connessi, trovarono dimora a Celano.

Fra i connessi ovviamente erano compresi anche Costanzo e sua moglie Cristina Zonnetti, classe 1785, la quale, nella sua nuova residenza, il 10 aprile 1819 diede alla luce un figliolo che fu chiamato Filippo Vittoriano.

Era nato il primo celanese della dinastia Cavasinni.

La registrazione della nascita del piccolo fu però effettuata dalla levatrice dell’epoca, tale Angela Dea Lorenzini, poiché né Costanzo né Cristina «sapevano di lettere» e la cosa infastidiva non poco i due coniugi.

Soprattutto Costanzo che, proprio in quell’occasione, ebbe uno dei suoi migliori colpi di genio. Appena gli fu possibile, iscrisse il giovanissimo Filippo Vittoriano in seminario in modo che «fosse avviato al sapere», salvo poi scoprire, qualche tempo dopo, che: «Purtroppo non avendo il ragazzo sviluppato una fede talmente profonda da smuovere le montagne, era decisamente meglio che seguisse le orme paterne.»

Fu così che Filippo Vittoriano, abbandonati senza troppi rimpianti gli abiti talari, cominciò anche lui a sfornare pane per il popolo e ostie da destinare ai sacramenti e, alternando il sacro al profano, incrementò ulteriormente i già ben avviati affari del genitore.

Anzi, fu anche più abile del padre, poiché investì i profitti della sua attività in case e piccoli appezzamenti di terreno ma, soprattutto, fece studiare seriamente e con profitto suo figlio  Giovannantonio che, appena ventenne, andò a ricoprire un ruolo di prestigio presso il comune di Celano. 

«Corsi e ricorsi della storia» pensò Giovannantonio.

Adesso, infatti, sarebbe toccato a lui il compito di stare al passo con i tempi e per questo era importante pianificare con cura il futuro del suo bambino al quale, per inciso, aveva imposto come primo nome quello del padre e come secondo quello di suo suocero: Filippo Neri Antonio Cavasinni.

Questa è la fine dell’anteprima gratuita. 

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