Dal diario di Adriana
Giorno 8
Vi ho detto poco del mio mestiere di giornalista. Forse perché molte cose mi sembrano ovvie e perché talvolta chi fa il mio lavoro viene messo sotto accusa per ragioni diverse: perché non ha raccontato i fatti in un certo modo; perché ha detto alcune cose piuttosto che altre, perché è sospettato di aver fatto da megafono ad alcuni politici che blaterano e via di seguito. E a dire il vero capisco che molti in questo periodo non abbiano voglia di ascoltare i politici che si rincorrono con dichiarazioni e controdichiarazioni piuttosto folli, come la proposta di tornare subito alle attività produttive o di riaprire le chiese per la Pasqua.
Ma torniamo al mestiere di giornalista che è quello che faccio da tanto tempo. E in Rai, nel servizio pubblico. In questa emergenza è ovvio che siamo stati costretti ad adottare misure di garanzia per il nostro lavoro. Trovarsi al mattino, seduti dinanzi ai nostri computer, con colleghi in mascherina e guanti fa un certo effetto. Nei corridoi cerchiamo di non incontrarci ma è uno sforzo vano. Le trasmissioni di approfondimento vengono condotte dagli studi in quasi totale solitudine e io stessa, quando conduco il tg, ho qualche anonimo tecnico dietro le telecamere che a malapena riesco a riconoscere. Ancora più complicato il compito dei cosiddetti inviati sul campo, ovvero incaricati di raccontare ciò che accade sul territorio a stretto contatto con il virus. In quel caso il rischio è davvero elevato.
Qualcuno ci ha ringraziati, in generale, per quello che facciamo, altri, invece possono tranquillamente fare a meno di noi. Ci sono i social, il web, i video, insomma, non siamo essenziali.
Ho scritto il mio primo articolo alle scuole medie sul giornalino scolastico. Frequentavo uno dei primi licei sperimentali della capitale, un istituto ritenuto all’epoca all’avanguardia. Nel pomeriggio si svolgevano attività parallele come la fotografia, la geologia e il giornalismo che ormai sono alla portata di tutte le scuole. Fu attraverso quelle prime esperienze che compresi quanto potesse essere interessante provare a raccontare la realtà che a volte è più vera della fantasia. Certo, erano tentativi timidi, a volte non soddisfacenti, imperfetti, ma l’emozione era grande.
Cambiano tante cose
La vita scombussolata di queste settimane ci costringe a utilizzare lenti diverse e forse ci accorgiamo di essere limitati e di non poter governare ogni cosa. Ricominciamo tutto dal principio.
Dobbiamo spiegare il virus che – ormai è chiaro – non appartiene alla fantascienza. È intoccabile e invisibile, ma così vero e potente da incidere su destino delle nostre famiglie, sulle abitudini e soprattutto sui nostri desideri. Cambiano tante cose. E noi tutti siamo accomunati da un sentimento: l’incertezza.
Il domani non è assicurato a nessuno, giovane o vecchio
La sfida di noi cronisti è raccontare tutto questo. E non sarà facile. Mi viene in mente Gabriel Garcia Marquez, giornalista e scrittore tra i miei preferiti proprio per la sua capacità di essere asciutto ed efficace. Quando stava per ritirarsi dalla vita pubblica per ragioni di salute scrisse una lettera. Eccone uno stralcio: «tante cose ho imparato da voi uomini. Ho imparato che tutti quanti vogliono vivere sulla cima della montagna, senza sapere che la vera felicità sta nel come la montagna è stata scalata. Ho imparato che quando un bambino appena nato stringe con il suo piccolo pugno, per la prima volta, il dito del padre, lo racchiude per sempre.» Una lettera bellissima con un pensiero che vale più di tante inutili parole: «il domani non è assicurato a nessuno, giovane o vecchio – scrive Marquez – e per questo mantieni coloro che ami vicino a te, dì loro all’orecchio quanto ne hai bisogno, amali e trattali bene… prenditi tempo per dirgli mi dispiace, perdonami, per piacere e grazie e tutte le parole d’amore che conosci.»
Dicono che Marquez abbia impiegato 18 mesi sigillato in casa, da solo, in una stanza lontano dalla sua famiglia per scrivere Cent’anni di solitudine, il romanzo che racchiude tutta la sua forza creativa. Chissà che cosa impareremo dalle nostre solitudini.