Miss Baby Macumba

Miss Baby Macumba di Costantino Draganete

Un’artista tormentata, un ex pugile, il mare e un segreto che li unisce.

  • Titolo: Miss Baby Macumba
  • Autore: Costantino Draganete
  • Lingua: Italiano
  • Formati: kindle, copertina flessibile
  • Editore: Oakmond Publishing (2022)
  • Generi: Romanzo, Narrativa, Erotico

Quando Marta Ardini diventa consapevole del proprio fallimento, decide di ripartire da zero. Una villa a picco sul mare le sembra l’ideale per cambiare vita. Priva di mezzi, la propone alla sorella Giulia, la famosa artista Miss Baby Macumba, che rifiuta con decisione ma cambia improvvisamente idea quando capisce che Villa Scorpione la porterà da un uomo per lei fondamentale.

La costruzione diventerà il teatro di relazioni costruite dal caso ma fugaci e significative, di incontri pieni di segreti e ricordi dolorosi che causano profonde trasformazioni interiori. Un romanzo complesso nel quale l’autore costruisce una narrazione tutta al femminile, che sonda e descrive l’interiorità delle protagoniste alle prese con gli accadimenti della vita.

«Aveva riconosciuto le quattro isole, poi aveva capito dov’era la villa, aveva capito che era a pochi metri, cento, duecento dallo stabilimento dell’uomo che l’aveva salvata, una volta conscio d’averlo fatto, un’altra volta del tutto ignaro. Aveva deciso di comprarla solo per questo.»

Acquista qui – Formato Kindle – Copertina flessibile

Comincia a leggere qui gratuitamente l’incipit del libro
Miss Baby Macumba:

1

La lunga spiaggia terminava a una prima punta rocciosa alta venti metri circa, sottile e aguzza. A questo sperone, chiamato il Nido dei Gabbiani, ne seguivano altri due formando una breve costa a rias. Tra le prime due punte si apriva l’insenatura detta di ponente, oltre la seconda c’era quella di levante, più larga e chiusa a sud dalla terza punta, bassa e molto avanzata, sulla quale era ancora solida una vecchia torre di guardia, abbandonata e spoglia. Ancora oltre si stendevano un tratto di mare, poi un piccolo porticciolo turistico e dopo spiagge e scogliere lineari.

La seconda punta era la più alta e anche la più particolare e affascinante. Aveva la forma d’un ciclopico cilindro di granito. La sua base era protetta e circondata da una scogliera color zucchero di canna in granella. La sommità, quasi perfettamente piatta e circolare, aveva un intaglio profondo tre metri che formava una tonda cengia rientrante. Questo cilindro di granito era alto quasi trenta metri. Sarebbe stato un faraglione se fosse stato privo del crinale che lo univa al lungomare.

Il crinale era sottile, simile a un muro edificato con pazienza in tempi lontani, largo non più di tre metri. Curvava leggermente salendo verso il cilindro chiamato da quelli del posto lo Scorpione.

Il nome non si riferiva alla forma che richiamava piuttosto il profilo di un girino o d’uno spermatozoo. Per i paesani quel posto era proprio come uno scorpione. Quando la pioggia trasformava la terra in fango, il crinale concavo si trasformava in una velenosa insidia. Diverse persone nel corso degli anni erano scivolate sfracellandosi nell’insenatura di levante o ponente. L’accesso a quella sottile lingua era stato sbarrato in tempi più moderni da una robusta cancellata, quando la vita umana aveva acquisito un’importanza maggiore.

I ragazzi del paese la scavalcavano per andare di nascosto sulla piazza rocciosa che galleggiava nell’aria salmastra. Stavano là a fumare e bere e al tramonto o di notte facevano l’amore. Fissavano il mare e provavano, com’è giusto che sia, un senso di onnipotenza che permeava le loro risate beffarde. I ragazzi del posto erano equilibristi e selvaggi, impossibile fermarli con del ferro arrugginito. Potevano fare i loro comodi perché la spianata era lontana dalla strada e nascosta alla vista da una fitta barriera di alti arbusti che affondavano le radici nelle fratture laterali della pietra. Al centro, a causa del fondo roccioso più compatto, crescevano sporadici ciuffi d’erba e piccole piante selvatiche. Martana, violaciocche, rosmarino e bocche di leone si alternavano con discreta fortuna nella stagione della fioritura. Si diceva che quella forma piatta fosse stata modellata da antiche popolazioni per usi sconosciuti, e che questo fosse dimostrato dalla presenza dei massi accatastati alla base.

La seconda punta rimase intatta finché un imprenditore della città, Cosmi, riuscì ad acquistarla. Quella dopo la Seconda guerra mondiale era un’epoca nella quale trasformare in proprietà privata un luogo così particolare era ancora possibile e plausibile.

Terradoro a quel tempo s’era spopolata; la gente fuggiva dal paese impoverito e aggrappato alle pendici del monte per tentare miglior fortuna in città o all’estero. Sul lungomare erano sparse alcune catapecchie, affondate tra canne e alberi di fico, usate dai pescatori come riparo provvisorio. In estate e a Natale gli emigrati tornavano al paese solo per qualche giorno. Stavano con le famiglie, mangiavano fino a scoppiare, bevevano fino a ubriacarsi cercando di dimenticare il passato e il futuro. I pochi turisti avventurosi trovavano posto in case private oppure nell’unica piccola pensione nel paese vecchio, I Sugheri.

Gli amministratori valutarono che privarsi di un piccolo pezzo di territorio, del quale del resto non coglievano l’unicità né l’utilità, sarebbe stato un sacrificio utile. Considerarono a ragione che Cosmi in città avrebbe magnificato il luogo, attirando altri ricchi in cerca di luoghi ameni. La cessione avrebbe anche risolto il problema costituito da quel crinale troppo pericoloso che provocava denunce e diffide da parte dei genitori dei ragazzi avventurosi.

La proposta d’acquisto arrivò durante un inverno piovoso. Il paese era morto piuttosto che in letargo, a percorrerlo si cadeva nell’anticamera di un incubo. Rapidamente, il Comune concesse a Cosmi il terreno non agricolo edificabile foglio 31 particella 8 sezione 3.

Il sindaco e gli assessori furono lungimiranti. Cosmi entusiasta ne parlò al circolo sportivo, alle cene e alle riunioni di lavoro, la notizia arrivò alle orecchie dei giornalisti di cronache rosa. Poiché a quel tempo si credeva ancora ai giornali che descrivevano un gioiello intatto al di là della catena montuosa, giunsero dopo un po’ i grandi speculatori.

Terradoro era isolata e difficile da raggiungere, occorreva superare un passo a settecento metri d’altitudine su una strada stretta e tortuosa. Gli speculatori in grosse automobili scure, da lassù, colsero con uno sguardo la baia brillante, la suddivisero mentalmente in feudi da cementificare e si fregarono le mani. Uomini d’affari, costruttori e ingegneri si gettarono giù per la discesa e diedero il via con grande capacità e lavoro indefesso alla distruzione della costa.

Istituti di credito concessero mutui per l’acquisto dei terreni in prossimità del mare. Alla giunta comunale arrivarono finanziamenti opachi e munifici per firme compiacenti sulle delibere. In pochi anni vennero costruiti consorzi, condomini e ville in viali simili a lunghe dita affusolate che dalla strada provinciale si allungavano verso il mare per ghermirlo.

Quando comparvero i primi negozi con articoli di lusso la vecchia Terradoro prosperò, ma al tempo stesso si perse. Chi era emigrato tornò, i pescatori smisero di andare per mare e iniziarono a lavorare nei cantieri che edificarono case, stesero strade, piantarono lampioni, crearono parcheggi attirando la media borghesia poi annientata dalle crisi economiche del millennio successivo. Famiglie giovani, cui era concesso un facile credito in banca, realizzarono il sogno di lunghe vacanze estive.

Si creò il contrasto tra Terradoro bassa, moderna, di cemento grigio con nuovi negozi luminosi e strade dritte, larghe, tagliate a reticolo e Terradoro antica, in alto, stretta e labirintica, massiccia e difensiva. Ma anche qui le anguste botteghe coi ripiani in truciolato piegati come vecchie carte da gioco, le mercerie, le latterie e le minuscole norcinerie, i bar in penombra sarebbero stati spazzati via dalla nuova ricchezza.

L’impervio valico, che limitava la circolazione e creava lunghe code di automobili coi radiatori bollenti, venne evitato perforando la montagna con una lunga galleria. Si tentò anche la bonifica della palude di Grecomorto che si stendeva tra la foce del fiume Radomonte e il Monte Terradoro, sul versante opposto a quello dove sorgeva il paese. Si progettò di costruirvi altri villaggi turistici ma la palude si dimostrò più forte delle ruspe, vomitando acqua di notte che annegava scavi, canali e cantieri. Appena prima del fallimento dei consorzi a Grecomorto nacque una sola casetta quasi sulla riva del mare. Era di un uomo che si chiamava Attilio Coralli. Quella casa celava segreti ed era segreta anch’essa, tanto che il figlio di Coralli, Tommaso, avrebbe saputo della sua esistenza solo alla morte del genitore. Veniva considerata una leggenda perché nessuno era mai riuscito a superare il vasto e complesso dedalo di viuzze tra i laghetti della palude.

Dopo l’acquisto de Lo Scorpione, per prima cosa Cosmi fece lastricare e mettere in sicurezza il pericoloso crinale, con corrimano robusti fissati a due larghi muretti di pietra. Villa Scorpione venne costruita subito dopo, nel corso di un inverno. Poiché fu impossibile far giungere là i macchinari pesanti per le fondamenta, vennero scavati manualmente fori circolari nella roccia nei quali furono piantati robusti pali di legno ispirati alle fondamenta di Venezia, intorno ai quali venne gettata una base di cemento. Tutti gli operai erano imbragati con corpetti di sicurezza, agganciati a spessi cavi fissati a terra.

La forma dell’abitazione seguì quella della punta posandosi come cera liquida in un calco. Era a un solo piano, dipinta di grigio rosa a mimesi del granito. Le mura, comprese le vetrate, seguivano la circonferenza della spianata e una mattonella al centro del salone, decorata con la lettera O, indicava il punto d’origine del raggio di quel fascinoso cerchio. Tutto il perimetro della casa, salvo l’ingresso che dava sul crinale, era a picco sulla scogliera, inondato di luce ed esposto a una brutale bellezza. Le vetrate arrivavano a sfiorare il ciglio del dirupo per permettere una vista totale sul mare che rumoreggiava e frusciava giorno e notte sui massi. Ne risultò una costruzione ardita, vertiginosa. I folti arbusti, che prudentemente non vennero toccati, nascondevano del tutto la costruzione a chi passasse sulla strada.

Dietro la porta d’ingresso c’era una minuscola anticamera con un attaccapanni a muro. Una porta sulla sinistra conduceva alla zona notte. Un piccolo arco immetteva nel vasto, dominante salone nel quale spiccava la grande cucina a isola di forma tondeggiante e irregolare. Le pareti erano in semplice muratura bianca, salvo alcuni punti rivestiti di sottili pannelli di legno d’ulivo, dai disegni mossi e vivaci. Nel salone alto c’erano vari divani e poltrone, un lungo tavolo da pranzo. Una parete curva nascondeva parzialmente un bovindo, con due chaise longue per godere della vista sull’orizzonte azzurro, dal quale emergevano le quattro isole Fatia, Sinsa, Grenola e Suscia.

A causa della vegetazione era preclusa la veduta della punta piccola e quindi della larga spiaggia che terminava ai moli del porto grande, distante un paio di chilometri. Dalle finestre delle camere da letto erano immediatamente visibili la torre di guardia diroccata, sulla terza punta, e il tratto di mare del Gobbo Sommerso, irto di scogli.

Una larga scala coi gradini rivestiti di legno, vicina alla cucina a isola, portava al salone basso, ricavato dalla cengia. Era un piccolo anfiteatro nel quale erano sistemati due divani a muro, due poltroncine, una libreria e un piccolo bar con un lavandino, un frigorifero e scaffali per le bottiglie. Su un lato, leggermente rialzato sopra un basamento di pietre, c’era un camino grande e profondo. Una porta a vetri immetteva su un terrazzino minuscolo chiuso da una gomena fissata a dei pali.

Nella zona notte c’erano tre camere da letto e due bagni. Due delle camere, non troppo spaziose ma luminose e accoglienti, erano collegate. Vi era anche una stanzetta.

Le suppellettili erano poche e semplici. Su alcuni scaffali c’erano vecchi libri di marineria, su altri riproduzioni di barche con le vele ingiallite e il sartiame vicino a dissolversi in polvere, grandi conchiglie intatte e lucenti che venivano da chissà quale mare.

Cosmi, una volta terminati i lavori, pensò di dare una festa di inaugurazione. Ma proprio in quei giorni sua moglie, dopo molti vani tentativi e aborti spontanei, riuscì inaspettatamente a rimanere incinta. La gravidanza fu difficile e la donna rimase a letto quasi tutti i nove mesi. La festa venne rinviata e non si svolse mai.

Nacquero due bei gemelli che cambiarono irreversibilmente il destino della villa. La donna decise di non passare un solo giorno in quel luogo così pericoloso. Era tormentata da crudeli visioni nelle quali i due bambini gattonando o muovendo i primi timidi passettini volavano giù sulle pietre aguzze. Cosmi dovette comprare una seconda casa in un villaggio vicino, Il Palmeto, e mise in vendita Villa Scorpione senza averla mai vissuta.

L’abitazione venne acquistata da Michele Fercasi, un industriale di successo. Era un uomo massiccio, cupo, sbrigativo e sostanziale che per abitudine e sfoggio di potere teneva tra le labbra un grande sigaro, sempre spento. Era deciso e senza scrupoli, padrone della Fercasi SpA che prosperava grazie alle immense speculazioni edilizie compiute in quegli anni. Durante l’estate fece sostituire gli infissi con altri di ultima generazione per coibentare la casa. Programmò per l’autunno i lavori di ammodernamento, ma non ebbe mai la possibilità di farli eseguire.

Nato agli albori del fascismo, vi era stato educato rimanendo fedele alla dottrina al punto di tradire i compaesani, sospettati di aiutare la Resistenza, consegnandoli alle Waffen-SS e facendoli sterminare. Non si sentiva in colpa, riteneva di aver compiuto il proprio dovere di camerata e patriota, come del resto fecero molti altri repubblichini permettendo così massacri e stermini nei territori della RSI. Nessuno, pensava, avrebbe potuto testimoniare contro di lui, poiché non vi erano sopravvissuti e lui aveva cambiato cognome, lasciando quello autentico nell’elenco degli assassinati. Si sbagliava, alcuni bambini s’erano nascosti nel bosco e giurarono vendetta. Una volta divenuti adulti lo rapirono, lo sottoposero a un terrorizzante promemoria e poi lo sgozzarono.

Trovarono la sua auto nel parcheggio dell’azienda, la borsa a terra e accanto una macchia di sangue. Le indagini puntarono sull’assegnazione degli appalti che da sempre era un coacervo di malavita e corruzione. Era accertato che Fercasi fosse collegato da anni alle grandi mafie del sud, ma l’inchiesta finì nel nulla. Che non si trovasse un indizio fece sospettare manovre di Palazzo, servizi segreti deviati e oscure trame di potere. Nessuno pensò che l’omicidio trovasse la sua origine nel periodo della guerra mondiale. Il corpo del magnate, avvolto in una pesante rete metallica, fu gettato in una profonda pozza nella palude di Grecomorto e non venne mai più ritrovato.

Villa Scorpione venne ereditata, insieme a numerose altre proprietà, dal figlio Pietro. Si trattava di un giovane mentalmente instabile, assai vendicativo e facile alla collera. Poiché amava la vita rutilante e frenetica, il jet set e la bella società, preferì a quella di Terradoro, nascosta e riservata, le case che possedeva a Cortina d’Ampezzo, Venezia e Capri.

Se il corpo del padre sparì per sempre, il suo restò in bella evidenza sulle prime pagine dei giornali. Pochi anni prima delle vicende attuali, Pietro Fercasi morì in una violenta sparatoria per mano di un uomo, Giulio Levrec, a qualche chilometro da Villa Scorpione su una terrazza di roccia presso il consorzio Il Palmeto.

Sua madre, già provata dalla vedovanza senza che il corpo del marito le fosse stato restituito, morì di crepacuore pochi giorni dopo il figlio. Non vi erano altri eredi diretti a causa del cambio di generalità da parte di Fercasi e la casa andò allo Stato. La società di famiglia venne acquisita dalla MIAB, una multinazionale di proprietà sudcoreana. Con l’estinzione del cognome Fercasi si compì la vendetta dei sopravvissuti, organizzati come una potente società segreta.

La villa, acquistata all’asta da una finanziaria, venne poi messa in vendita a un prezzo decuplicato. I primi tempi andarono a vederla in molti, attratti dall’eccentricità dell’abitazione e dalla particolarità del luogo, ma nessuno la comprò, anche se il prezzo negli anni venne più che dimezzato. I nouveaux riches pensarono che fosse poco appariscente, troppo piccola. Volevano saloni in marmo, idromassaggi, campi da tennis e piscine dove gridare davanti a partite di calcio su schermi da mille pollici. Le giovani coppie della città non avevano i milioni di euro richiesti. Sognavano un matrimonio felice, figli felici, una vita felice. Avrebbero avuto tutto, meno la felicità.

Questa è la fine dell’anteprima gratuita. 

Acquista qui – Formato Kindle – Copertina flessibile

I libri di Costantino Draganete