Black and Blue

Black and Blue di Andrea Carlo Cappi

Il primo investigatore afro-europeo picaresco, duro e ironico.
Non lavora per la polizia e non è neppure legalmente un investigatore privato.
Sullo sfondo, l’isola di Maiorca come non l’avete mai vista.

Si fa chiamare, con orgoglio, Toni Black. Buttafuori, mercenario, investigatore senza licenza, conosce tutti i segreti di Magaluf, Maiorca, che per sei mesi all’anno esplode di musica, alcool e sesso. Ma c’è qualcosa di nuovo nella città del peccato: una banda di criminali senza scrupoli, un jihadista che lancia messaggi via Internet, una donna misteriosa che ha perso le tracce della propria identità. Dove la legge non può arrivare, l’unico che possa mettere a posto le cose è Toni Black. Un classico antieroe… un personaggio libero, un personaggio vero. (Andrea G.Pinketts)




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Black and Blue:

Prologo

Perché sono quello che sono?

Perché faccio quello che faccio?

La risposta alla prima domanda non ha niente di filosofico. È solo il risultato di un sorteggio alcolico-genetico. Mille variabili combinate fra loro in modo imprevedibile, come in un’estrazione a sorte: una Loteria del Niño in cui il niño, non voluto, ero io.

Anche la risposta alla seconda domanda dipende dalla somma di molti fattori: la crisi globale, la semplice arte del balconing, la perenne ricerca della donna della mia vita (della mia vita)…

Questo e altro fanno sì che io, Toni Black, detective senza licenza, eroe a pagamento, mi appresti a un salto di qualità: in mare, con un buco in testa e un blocco di cemento legato alle caviglie.

Ma hanno detto che forse il buco in testa me lo risparmiano.

A Natale tutti sono più buoni.

Però oggi è il venticinque agosto.

I

BLACK

Maiorca, Spagna

Da giovedì 20 a

venerdì 21 agosto 2015

1

Sono seduto a un tavolo di El Ultimo Paraiso, a un paio di metri dalla sabbia, con davanti la mia caraffa di birra di mezzogiorno e un nuovo cliente: Ronald DeWalt, barista a El Palacio, mezzo olandese e mezzo scozzese, un quarantenne biondiccio e nervoso. Per qualche tempo, su questa stessa spiaggia, ha avuto un locale in società con la moglie Luz, spagnola. Poi lei lo ha mollato e lui ha dovuto vendere l’attività per pagare gli alimenti. Da queste parti certi bar e certi matrimoni non resistono a lungo.

«Luz sta con uno nuovo», mi sta raccontando lui. «Non so chi sia, ma non mi piace per niente. Sono certo che la prende a botte.»

«Come fai a saperlo?» chiedo, distogliendo a malincuore lo sguardo dalla spiaggia. Una graziosa biondina con un prendisole bianco sta distendendo un telo di spugna sulla sabbia, proprio al centro del mio campo visivo.

«L’hanno vista con lividi sulle braccia e sulle gambe», dice Ronald. «Da quando è cominciato il caldo. Ma chissà da quanto va avanti, senza che si vedessero sotto i vestiti.»

«Non le hai chiesto come se li è fatti?»

«C’è un problema. La gente pensa che glieli abbia fatti io. Un paio di amici comuni sono venuti da me con la mezza idea di darmi una lezione. Ho fatto fatica a convincerli che non c’entro niente.»

«Dovresti parlarle.»

Ronald scuote la testa. «Luz al telefono non mi risponde e di persona non la posso vedere, altrimenti penseranno tutti che la sto davvero perseguitando. Sai, stalking, violenza machista, eccetera. Di queste storie ormai se ne sente una nuova tutti i giorni.»

«Eh, sì.»

Ci sono due cose che non sopporto al mondo e una di queste è la violenza di genere. Se ne parla di continuo. A Castelldefels nel giro di pochi giorni due donne sono state uccise a colpi di machete, pare dai rispettivi ex-mariti, neanche fosse diventato il nuovo sport locale. A Cuenca sembra che un poco raccomandabile giovanotto del luogo abbia chiesto un ultimo appuntamento all’ex-fidanzata immigrata, la quale per prudenza si è presentata con un’amica spagnola; le hanno trovate entrambe morte dopo qualche giorno e lui è stato arrestato in Romania, dove si era rifugiato a casa di un amico conosciuto in carcere. E questo solo nelle ultime settimane.

Guardo il mio cliente. «Quindi vuoi che la tenga d’occhio e scopra chi è il bastardo», concludo.

«E che gli faccia passare la voglia di picchiarla», aggiunge Ronald. «Capisci cosa voglio dire.»

Capisco. Quando sei un tipo alto, muscoloso e con l’aria incazzata, da te la gente si aspetta che tu convinca le persone. Per fortuna, di solito non c’è nemmeno bisogno di passare alle vie di fatto: è sufficiente l’aria incazzata.

Mi volto di nuovo verso la spiaggia. La biondina si è sfilata il prendisole e ora si sta spalmando di olio solare il seno scoperto. Semplicemente adorabile. Inspiro a fondo.

«Farò il possibile», prometto a Ronald, mentre cerco di decifrare il tatuaggio a fondo schiena della ragazza: una scritta di qualche genere, ma a questa distanza non la metto bene a fuoco. «Dove…» Mi volto verso il cliente. «Dove posso trovare Luz?» gli domando.

«Ha un appartamento a Cala Mayor, in calle Saridakis. Dalle otto del mattino alle sei di sera lavora come governante all’Hotel Polinesia, lì vicino.»

«Mi serve qualche sua foto.»

«Te le mando sul cellulare.»

Scuoto il capo. Prendo di tasca il mio vecchio telefonino e glielo mostro. «Mandamele via e-mail, per favore.»

«Okay.» Ronald si alza. «La birra la offro io.» E mi lascia al tavolo a riflettere sul caso, con il sottofondo musicale dagli altoparlanti del bar: una versione semiflamenca di Angelitos negros.

Non è che ci sia molto da pensare, a dire il vero: ho una finestra di sei ore tra quando Luz esce dall’Hotel Polinesia e l’ora in cui devo entrare in servizio a El Palacio, il mio altro lavoro. Non ho una macchina e se prendo troppi taxi rischio di andare fuori budget, quindi mi devo arrangiare con i trasporti pubblici, che la sera non sono molto frequenti.

Torno a dividere la mia attenzione tra la birra, la canzone e la biondina sulla spiaggia. Ho notato che il topless, tanto di moda negli anni Ottanta e Novanta, da qualche tempo è in disuso. Per motivi che mi sfuggono, viene praticato perlopiù da donne anziane e sovrappeso che mi fanno tornare in mente un verso di un poeta italiano del XIII secolo citato spesso dal professor Rodrigo: Le vecchie e laide lasserei altrui, diceva Cecco Angiolieri. In ogni caso, ormai è piuttosto raro trovare ragazze graziose che indossano, per così dire, il topless con eleganza e disinvoltura.

Al momento ho una di queste rarità sotto gli occhi, a pochi metri da me. La vedo mettersi a sedere per recuperare una bottiglia d’acqua dalla borsa e cerco di nuovo di leggere la scritta tatuata sulla schiena, senza successo.

Tempo fa ho istituito una sorta di gioco mentale che consiste nell’eleggere la donna della mia vita (della settimana). Nel senso che, almeno una volta la settimana, mi capita di vederne una che sembra avere qualcosa di speciale. Può essere una ragazza affacciata a una finestra, seduta sull’autobus o distesa sulla spiaggia. E penso che lei potrebbe essere la donna della mia vita.

Nel novanta per cento dei casi mi limito a guardarla da lontano e non le rivolgo nemmeno la parola: non mi piace molestare le donne e immagino che a quelle carine succeda fin troppo spesso di essere avvicinate da sconosciuti con intenzioni discutibili. Tra il rimanente dieci per cento – quelle cui mi capita di parlare se le circostanze sono favorevoli – alcune sarebbe stato meglio non conoscerle affatto: erano perfette solo finché restavano sotto forma di ipotesi. Ma spero sempre che tra una di loro si nasconda la donna della mia vita… della mia vita.

In realtà per un certo periodo ho avuto ben chiaro chi potesse essere la mia compagna ideale. Solo che non l’ho mai conosciuta di persona. Si chiama Desirée, di madre spagnola e padre della Guinea Equatoriale (come ho appreso da Wikipedia) e teneva la rubrica dello sport al TeleDiario di TVE. Non mi sono mai interessato al calcio, ma quando era lei a parlarne contemplavo il suo sorriso a trentasei denti mentre pronunciava le parole Barça o Real Madrid. Poi lei ha continuato a lavorare in redazione e non è più apparsa in video: forse voleva essere più giornalista che star. Buon per lei, ma lo sport ha perso definitivamente ogni interesse per quanto mi riguarda.

La birra finisce. Domingo passa al volo, ritira la caraffa vuota e mi chiede se ne voglio un’altra. Ci penso un nanosecondo. Rispondo di no. Devo andare.

Ma non mi piacciono i misteri irrisolti.

Mi alzo dal tavolo, scendo i tre gradini che mi separano dalla spiaggia e percorro qualche metro. Metto un ginocchio sulla sabbia, senza avvicinarmi troppo alla biondina tatuata. È una cosa che ho imparato dai libri di Jeffery Deaver: la distanza a cui ti poni quando ti rivolgi a un soggetto determina la percezione che questi avrà di te, una presenza rassicurante oppure una minaccia. Nozione utile sia quando devi far parlare una persona reticente, sia quando invece vuoi rassicurarla.

Al mio educato «Chiedo scusa», in inglese, la ragazza ha lo stesso un lieve sussulto, accorgendosi dell’ombra scura che incombe su di lei. Apre gli occhi, chiarissimi, luminosi.

«Ero seduto al bar», proseguo con un sorriso amichevole, «e stavo cercando di capire che cosa c’è scritto sul tuo tatuaggio.»

Lei sorride a sua volta, anche con gli occhi. «Quello sulla schiena?»

«Sì.» Noto che in effetti ha altri tatuaggi più piccoli, sul polso destro e su una spalla. Il seno, fine e leggero, è uniformemente abbronzato e lucido di olio solare. Lei si gira per mostrarmi la schiena. Leggo: Vivir un cuento de hadas. Vivere una fiaba, in spagnolo, e anche il titolo di una canzone di Juan Peña El Lebrijano. Un tatuaggio che avrà una sua storia, immagino, e mi piacerebbe scoprirla.

La ragazza si volta di nuovo, sempre sorridente. Ci presentiamo a vicenda, lei è inglese e si chiama Belle. Di nome e di fatto. Le propongo una cena, una sera di queste.

Belle continua a sorridere. «Sono lesbica», mi informa, con voce dolce.

Oh.

«Be’», rispondo, «magnifico. Vuol dire che abbiamo parecchi interessi in comune.»

Devo avere una specie di sesto senso per le lesbiche. Le lascio il mio biglietto da visita: non si sa mai, potrebbe essere attratta dal mio lato femminile, che c’è di sicuro, anche se nascosto benissimo. Mentre torno verso El Ultimo Paraiso il suono del cellulare mi richiama all’ordine.

Guardo il display.

È la Vieja.

Evito di rispondere.

2

Ci sono due cose che non sopporto nella vita e una di queste è il telefono. A un certo punto, l’anno scorso, ho smesso persino di rispondere all’apparecchio fisso.

Non ne potevo più. Avevo perso il lavoro, ero in casa quasi tutto il giorno e il fottuto arnese squillava di continuo. Anche la sera e le domeniche e i festivi. Ma nessuno cercava me. C’era chi faceva il nome di mia madre, che risulta ancora intestataria dell’abbonamento. Ma in realtà non cercava neppure lei. Era sempre qualcuno che voleva vendere qualcosa – un prodotto, un servizio, un patto con il diavolo – a chiunque fosse disposto a comprare. Le voci, maschili e femminili, avevano e hanno quasi sempre un accento latino-americano e non mi è difficile immaginarne il motivo: un posto al call-center, che immagino frustrante e deprimente, non richiede la conoscenza della lingua catalana e forse è uno degli sbocchi lavorativi per gli immigrati che parlano spagnolo. Oppure ci sono intere colonie di call-center in Centro e Sudamerica, che chiamano in teleselezione da un continente all’altro per conto delle ditte spagnole. Forse è per questo che si fanno sentire anche alle ore più improbabili: questione di fusi orari.

Questa è la fine dell’anteprima gratuita. 

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