Avvocati si nasce, praticanti si diventa

Avvocati si nasce, practicanti si diventa - Matteo Bellemo

Avvocati si nasce, praticanti si diventa di Matteo Bellemo –

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about 50 words

«Innanzitutto mi presento: Giovanni Scarpa, ventisette anni, laureato, attualmente disoccupato e single. Tutto, e sottolineo proprio tutto, non per mia scelta.»

Con questo ironico esordio, il protagonista del romanzo inizia il suo diario per fissare su carta le proprie avventure, o meglio, disavventure.

Giovanni è un eroe contemporaneo, incarna la tipica figura del giovane nostrano medio, disoccupato ma ben educato, istruito ma perennemente inadeguato, che si ritrova, suo malgrado, costantemente alla ricerca di un preciso ruolo professionale e sociale. Unici elementi di certezza sono il legame con l’ex fidanzata, protagonista fuori scena ma, ahinoi, presentissima, e il rapporto aspro e sincero con il suo dominus, l’avvocato presso il quale svolge la tediosa attività di tirocinio come praticante.

Perennemente afflitto da inconsolabili pene d’amore e da ogni genere di personaggi umani e disumani, Giovanni s’impegnerà a superare ogni ostacolo con l’arma più affilata che possiede: l’ironia.

Riuscirà a riconquistare il cuore della sua amata? Conseguirà il meritato titolo professionale? Avrà la meglio sulle assurde pretese dei suoi clienti?

Ai posteri l’ardua sentenza.

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Avvocati si nasce, praticanti si diventa:

I

Innanzitutto mi presento: Giovanni Scarpa, ventisette anni, laureato, attualmente disoccupato e single. Tutto, e sottolineo proprio tutto, non per mia scelta.

L’alba degli eventi, o meglio, come si usa dire nei grandi classici, tutto ebbe inizio molto tempo prima che mi trovassi nell’anticamera dello Studio dell’avvocato Alvise Toffoli di Venezia solo con me stesso, in una di quelle insipide mattine tra le prime di settembre.

Me lo ricordo con certezza che era una giornata insulsa e insipida perché la giudicai tal quale lo sguardo inespressivo e vacuo della segretaria. Un essere femminile, almeno così parse dall’abbigliamento, dall’età e dall’umore indecifrabile. La quale m’accolse mestamente pregando d’accomodarmi sui divanetti all’ingresso.

Tengo a precisare che all’epoca non avevo alcuna necessità ne bisogno d’assistenza legale. Tuttavia la frequentazione di uno Studio mi era indispensabile per dare un senso e un ordine al mio percorso universitario che, in quanto laureato in giurisprudenza, contemplava l’eventualità dell’esercizio della libera professione. In ogni caso previo svolgimento di un periodo di tirocinio, detto anche periodo di pratica o «praticantato», presso un avvocato abilitato.

Questa era la motivazione razionale ed educata che mi spingeva a propormi presso questo come altri Studi, in cerca di un mentore per la mia futura professione. In realtà in quel preciso momento mentre stavo fissando una litografia della laguna veneziana sospesa alla parete di fronte, pensavo che mi sarei volentieri macchiato del peccato di coprofagia piuttosto che essere lì ad affrontare un nuovo, avvilente colloquio. E poi mi mancava Lei.

Non era la prima volta che mi recavo in umile processione presso un avvocato mendicando l’assenso a prestare la mia opera, gratuita s’intende, per le cause patrocinate dall’Ufficio. E ne avevo viste già abbastanza per giudicare che tale professione m’avrebbe causato un infinito voltastomaco. In più in quel preciso istante stavo pensando solo a Lei: alla mia ragazza, anzi alla mia ex.

Distintamente riuscivo ancora a percepire il morbido profumo dei suoi capelli accarezzarmi il volto e a scorgere anche quell’ammaliante scintillio nel profondo dei suoi occhi verd’azzurri. Potevo avvertire la sua presenza ma più lontana, quasi discosta. In quel preciso momento di profonda disperazione avrei volentieri sfondato la porta urlando in faccia al bell’imbusto che non poteva fregarmene di meno del suo Studio e di lui e di fare la professione. Gl’avrei dichiarato tutta la rabbia e il disprezzo ch’avevo in corpo, e che al mondo non c’era altra cosa importante all’infuori di Lei. Epperciò non se ne faceva proprio nulla! Poi sarei uscito slacciandomi a forza la cravatta e lanciando la giacca al vento, l’avrei rincorsa ululando il suo nome fino a perdere la voce, sino ad arrivare sotto la sua finestra, finché non ci fossimo ritrovati e amati.

Avrei fatto tutto questo e anche molto di più non fosse altro che proprio in quell’istante, mentre mi decidevo ad alzarmi per compiere il mio piano disperato, la porta s’aprì e uscì un altro pinguino incravattato che giudicai più o meno della mia stessa età. Il quale biascicò a bassa voce alcune parole incomprensibili mentre si dirigeva a passi sostenuti verso un’altra stanza dell’ufficio. Mi trapassò con lo sguardo quasi fossi invisibile e riprovai la medesima sgradevole sensazione del precedente colloquio.

Solo qualche giorno prima, infatti, mi ero recato presso un giovane avvocato, già titolare di un avviato Studio, il quale, senza distogliere il naso dalle sue sudate carte, mi concesse cinque, e dico cinque, minuti del suo prezioso tempo per presentarmi e perorare la giustezza della mia candidatura. Allora, curriculum alla mano, m’ingegnai tessendo le lodi del mio ateneo e dei prestigiosi docenti dai quali avevo appreso i rudimenti del diritto. Passai a sostenere la profondità argomentativa e l’originalità della mia tesi di laurea. Ma ugualmente tutto ciò parse non essere sufficiente.

Difatti l’augusto professionista alzò lo sguardo porcino e senza scomporsi troppo mi spiegò come lui avesse, invece, dovuto preparare non uno ma ben tre elaborati. Come si fosse meritato il massimo dei voti. Come gli accademici gli avessero persino offerto il dottorato di ricerca ed eventualmente una cattedra, con relativa sedia m’immaginai. Sentenziò infine com’avesse declinato tale offerta preferendo di gran lunga dedicarsi alla libera e nobile professione forense.

Di fronte a una simile qualità e vastità d’argomentazioni un mediocre laureato cosa avrebbe potuto aggiungere? Tre a zero, palla al centro.

Trascinando me stesso e la mia affezionata borsa uscii dallo Studio Nodaro, questo era il nome dell’illustre, più sconfortato che mai. E disgustato. In fondo si trattava solo di una competizione a suon di titoli?

Ora, di nuovo lì a pochi passi da un’altra sconfitta, improvvisamente la segretaria mi ridestò comunicando che l’Avvocato poteva ricevermi. Così risolsi ad alzarmi e penetrare la fortezza del nemico armato solo di me stesso. Superata la soglia m’accolse un’ampia sconfortevole stanza, assai poco luminosa. Arredata in stile tardo settecento-ottocento-novecento, non saprei giudicare, non sono un architetto né un antiquario, e la mano tesa oltre la penombra d’un elegante signore di circa sessant’anni. Sedeva su uno scranno di legno per lo meno della stessa epoca e mi fissava dietro un paio d’occhiali, leggeri, sistemandosi con la sinistra il ciuffo canuto, un tempo forse biondiccio, che gli cadeva sulla fronte.

Non sorrideva e poggiando i gomiti sulla scrivania avanzò verso di me:

«Cusì, el vol far l’avocato, eh[1]

Per prima cosa pensai: «Venetian, I suppose?»[2]

La seconda che feci, invece, fu quella di mentire.

Mentii per circa un quarto d’ora. Tanto era stato il tempo che mi concesse quel distinto personaggio per parlare di me stesso, delle mie esperienze e delle mie aspirazioni. Raccontai molte cose e in parte le stesse che rifilai al Nodaro, ma questa volta con molta meno convinzione ed enfasi.

Al termine della presentazione mi rimisi in silenzio come se avessi detto tutto quanto riguardo a quell’argomento e, come a un esame, attesi con ansia la seconda domanda.

Sfilandosi gli occhiali da sotto il naso si serrò un occhio con la destra e sporgendosi ancora più avanti:

«El sa cosa xe questo?[3]»

Sgranò l’occhio aperto proprio di fronte al mio naso e mi scrutò avidamente:

«Questo xe l’ocio dea verità! Se qualcuno me conta buxie mi me ne acorxo subito. Lo fiso e ghe digo: no stame contar bae![4]»

Non c’è che dire: feci un’altra splendida audizione che mi valse ancora una volta l’oscar per l’interpretazione del ruolo, sempre riuscitissimo, dello sfigato. Stavo per andarmene e raccogliere i meritati applausi della platea in visibilio quando una voce fuori campo mi richiamò alla realtà:

«De là ghe xe el so colega e la segretaria. Se faxa spiegar calcosa. Doman semo in tribunal: el vien?[5]»

«Sì, sì. Penso di sì. A che ora?»

Solo questo mi riuscì di balbettare prima di rinsaldare il patto con una vigorosa stretta di mano, come si conviene ai galant’uomini e congedarmi da quello che incredibilmente sarebbe stato, secondo il gergo tecnico, il mio dominus per il periodo di pratica forense.

A quell’epoca ancora non conoscevo la quantità di delusioni e disaffezioni che mi avrebbe portato tutto ciò, e molto inconsciamente mi rivolsi al collega per avere qualche dettaglio:

«Salve sono Giovanni Scarpa. L’Avvocato mi ha detto di parlare con te per capire come funziona l’ufficio. Sono il nuovo praticante.»

«Ciao, Sandro Videllio. Dunque il vecchio ubriacone ha deciso di prendere anche te? Devi essergli piaciuto parecchio perché son anni che non prende più nessuno a pratica.»

«Perché tu? Sei già avvocato?»

«No, ho fatto l’esame scritto, sto aspettando di fare l’orale e poi ti saluto e buonanotte ai suonatori. Me ne vado da questo Studio di pazzi.»

A quest’ultima affermazione rimasi interdetto. Dallo sguardo l’interlocutore lesse tutta la mia incertezza e mi spiegò che in quell’ufficio le cose non si svolgevano in maniera propriamente ortodossa.

L’Avvocato era ormai arrivato e, dopo oltre trent’anni di professione, non accoglieva tutte le cause preferendone solo alcune, in primis quelle che riguardavano la cerchia dei fedelissimi suoi compari di bevute. Sì, perché pareva che l’illustre avesse la tendenza ad alzare non uno bensì entrambi i gomiti sopra il bancone e soprattutto in buona compagnia.

Così toccava fare tutto a lui lì dentro, al povero Videllio. Preparava gli atti, perorava le cause di fronte ai giudici e svolgeva la noiosa e infinita attività di cancelleria. Mentre il vecchio si dedicava ai clienti ovvero alle clienti, in genere procaci donne vedove o divorziate con problemi di varia natura, soprattutto affettiva, limitandosi ad apporre di quando in quando la firma sugli atti già predisposti.

Mi disse tutto questo con uno sguardo compito e compiaciuto, gonfiandosi tronfio dell’aureola di santità che pareva brillare qualche spanna al di sopra di quel bauletto pieno di scienza che si portava appresso, al posto del capo.

Aggiungendo inoltre che della segretaria non si fidava affatto e la considerava una povera rincitrullita, completò un quadretto a chiaroscuri che mi fece scorrere un rivolo di sudore lungo la schiena: che fossi finito nel posto giusto?

«…e mi raccomando non parlare male dell’Avvocato di fronte alla segretaria: mi sa che quella s’è pure innamorata del vecchio!»

A quest’ultima pensai alla creaturina che nell’altra stanza s’indaffarava silenziosamente intorno a cumuli di pratiche e cartelline colorate, tentando di dare un tocco di femminilità a quel piccolo mondo antico, senza assolutamente riuscirci.

L’indomani mi ripresentai allo Studio in perfetto orario: otto e quindici spaccate.

La cosa non fu affatto facile poiché tra i ritardi ferroviari e la calca dei turisti assiepati lungo le calli e i ponti principali, c’impiegai un bel po’ ad avere ragione dell’orologio. Tant’è che all’orario previsto, secondo la targa ottonata appesa al portone, non ci fu anima creata che si degnasse di rispondere alle mie scampanellate.

Che dire: avevo forse sbagliato indirizzo? Eppure la strada me la ricordavo bene. La calle era la stessa del giorno prima e anche il nome appeso corrispondeva.

Mi risolsi per caffè-sigaretta-giornale al bar poco distante. Con la faccia stravolta m’appesi al bancone elemosinando un macchiato caldo e un accendino. Erano notti che non riuscivo a dormire. Il pensiero di Lei altrove m’aveva travolto e sconfitto. Mi aggiravo per casa quasi fossi il fantasma di me stesso scervellandomi sulle discussioni fatte, sulle parole dette e non dette, su cosa avessi sbagliato per averla persa, così stupidamente. Corroso dalla tensione e dall’amore infinito che nonostante le accuse e i rimproveri riuscivo a provare per Lei, m’incamminavo nel baratro della depressione e dello sconforto più totale mentre giravo e rigiravo il cucchiaino in quell’ennesima stramaledettissima mattina senza Lei.

Guadagnatomi anche un giornale, al solito consultai la cronaca locale sperando di non incrociare alcun evento negativo che la potesse riguardare.

Poi procedetti alla pagina dell’oroscopo: pareva l’enigma della Sibilla. A decifrare i nostri due oroscopi ci si poteva aspettare di tutto: dall’imminente caduta degli extra-terrestri, all’inizio di una nuova era di glaciazioni. Risolsi per niente di nuovo su entrambi i fronti.

E sì, ero proprio metodico nella mia disperazione. M’aggrappavo a ogni congettura pur di riafferrare al volo la cosa più preziosa ch’avesse mai incrociato la mia esistenza. Eppure dovevo saperlo che gli oroscopi sono fatti apposta per non crederci. Me l’aveva detto pure un mio lontano parente che lavorava per un quotidiano locale, che non gli arrivano tutti i giorni: non sono come il pane fresco di giornata. A volte quando mancano pubblicano quello di qualche tempo prima, se non addirittura dell’anno precedente. Tanto non vanno mai a male e ugualmente riempiono i vuoti, e del giornale e dell’animo.

Esalato anche l’ultimo tiro di tabacco abbandonai il bar incamminandomi lentamente per la calle. Poca gente in quell’angolo altrettanto poco turistico della città, anche se a volte qualche straniero poteva pure incapparci, non si potevano porre limiti alla Provvidenza. Oppure no?

Al momento incrociavo solo indigeni indaffarati a inseguire i propri impegni in continuo via vai di suoni ritmati dai colpi di tacco sul porfido delle mattonelle. In particolare una figura nera procedeva sveltamente nella mia stessa direzione. Allungando il passo, distrattamente la seguii finché non s’arrestò di fronte al malaugurato portone di prima e girandosi di scatto mi fulminò:

«Cosa el vol sior da mi? Perché el me vien drio? Son Nerina Sgorlon a segretaria dell’avocato Toffoli e se no me lasa star ciamo la Polisia![6]»

Eh sì, la pratica pareva proprio incominciare nel migliore dei modi: la segretaria non mi riconosce e anzi m’accusa di tentare d’abusare di lei.

Ma poi scusate, chi volete che sia quel folle in grado di compiere un gesto del genere di fronte a quel piccolo esserino dai capelli neri neri, lunghi e crespi, infagottato dentro quel pesante abito scuro e dietro quello spesso paio di lenti, il quale tutto poteva far pensare tranne evocare tentazioni carnali?

Risoluto e diplomatico replicai:

«Stia calma signorina, sono Scarpa il nuovo praticante, devo attendere l’Avvocato per andare in tribunale.»

La rigidezza della ragazza si scompose in un mezzo sorriso e in un altrettanto mezz’inchino che tutt’e due insieme potevano pure passare per delle scuse.

Mentre entravo nuovamente nell’atrio di quel piccolo mondo paranoico e antico che feteva pure di muffa e di stantio, mi ripetei se effettivamente stessi facendo la cosa giusta. Ma la risposta non arrivò. Non ancora.

Alle nove si presentò anche l’altro, il povero Videllio, il quale avendo già alcuni clienti in proprio, tutto trafelato, mi comunicò che quella mattina se ne sarebbe andato dal Giudice di Pace per curare gli affari suoi mentre al vecchio avrei dovuto «badare» io. Mi sfuggì il senso.

Allora incominciai a girare nervosamente per la stanza adibita a uso dei praticanti. Perlustravo minuziosamente ogni spazio del piccolo ufficio, dotato d’una ampia scrivania che lo occupava quasi per intero, di un computer scollegato dalla rete e ornato da un pesante armadio scuro. Intimorito, non osai neppure sfiorarlo per non ridestare antichi fantasmi che ivi riposavano sicuramente scordati dalle memorie umane.

Le pareti erano arricchite da vivaci macchie chiare-azzurre che a guardarle bene potevano pure passare per opere pop art. Di tanto in tanto quadrettini con anonimi panorami bucolici si alternavano ad altri sui quali si leggevano proverbiali quanto lapidarie massime, vagamente incoraggianti: «Un bravo avocato xe queo che fa passar un can par gato»[7].

Due piccole finestre davano sul cortile posteriore del palazzo: scarso il panorama dal primo piano. Le vetrate dell’edificio di fronte, molto più signorile, e l’edera che cresceva incolta sulle colonne del chiostro che attorniava il pozzo centrale, chiuso.

Dopo una buona mezzora d’indaffarato scazzo si presentò anche il titolare in perfetto doppio petto blu e cravatta a pallini. Sorridendo s’infilò nella sua stanza e iniziò a scartabellare cumuli di pratiche pazientemente ricomposte dalla segretaria. La quale trottava al seguito affannata e ansiosa, tentando quasi d’anticipare mosse e necessità.

Travolto dall’inconsueto accumularsi d’alcun genere d’impegni, sprofondai di nuovo nei miei tristi pensieri e sull’ampia poltrona di pelle lisa e appiccicaticcia. Passeggiando tra i ricordi di Lei, delle sue smorfie e dei suoi sorrisi, ripercorsi alcuni dei mesi più felici del nostro rapporto. Una cosa toccava proprio ammetterla: aveva il sorriso più appagante, coinvolgente e rasserenante che avessi mai conosciuto, ma ora forse stava allietando qualcun altro.

«Allora? ‘Ndemo?[8]»

Emersi tutto d’un fiato dal profondo di quel mare d’ansie e lacrime, afferrando al volo la fedele borsa nera. In fretta rincorsi il dominus rischiando, lo si può ben dire, un colpo al cuore.

Questa è la fine dell’anteprima gratuita. 

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