Brindisi per un delitto

Brindisi per un delitto di Albina Olivati

Un giallo lombardo ironico e meravigliosamente territoriale.

In una fredda sera del novembre 1985 a Sondrio, l’ex impiegata Delphine Frustalupi scorge alla finestra di fronte un’ombra che accenna un brindisi. Nella notte, dall’altra parte della strada, viene ucciso un giovane con fama di scapestrato. Forse l’ombra apparteneva alla vittima. O forse all’assassino. Tenace, curiosa, pungente, Delphine si sente in dovere di scoprirlo, sfidando al tempo stesso la polizia e il colpevole.

Un romanzo ironico e gustoso tra commedia umana e giallo di provincia, con una galleria di personaggi curiosi e un’investigatrice fuori dagli schemi.

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Brindisi per un delitto:

1

Lunedì 25 novembre 1985

Piazza Garibaldi era deserta. Il termometro sul muro dell’Albergo della Posta segnava meno cinque.

La falcata di Delphine Frustalupi risuonava con cadenza regolare, mentre tagliava diagonalmente quel largo spazio. Erano le otto di una sera di novembre. Non girava un’anima: a Sondrio il coprifuoco scattava almeno un’ora prima. Non esisteva legge o regolamento che l’avesse stabilito. Era così e stop.

Delphine stava rientrando dopo due ore di palestra. Si teneva allenata per le sciate che già pregustava. Impegni professionali non ne aveva più.

Aveva trascorso buona parte della vita come impiegata con mansioni direttive in una ditta di spedizioni a Lecco, la Brianzoni Superexpress. La conoscenza delle lingue l’aveva aiutata nella carriera: il francese lo parlava a menadito, in inglese e tedesco avrebbe potuto litigare senza ingarbugliarsi. Aveva studiato in collegio dalle suore e frequentato una scuola interpreti a Milano. Da diplomata aveva trovato facilmente un’occupazione. C’erano colleghi che l’avrebbero scaricata con immenso piacere nella tazza del wc, altri invece la consideravano simpatica e disponibile. Lei era un po’ tutte le cose, secondo come la si prendeva.

Adesso era in pensione. La fine dell’attività l’aveva fatta sentire inutile, ma solo per breve tempo. Ben organizzata, si era concessa ciò cui doveva rinunciare quando lavorava: poltrire a letto e godersi montagna o mare, a suo piacimento. Fondamentale era non doversi mettere d’accordo con vicini di scrivania o superiori. In fin dei conti, la libertà era anche quello. Le sconfinferava la Valtellina: Bormio, Santa Caterina, Aprica e Valmalenco erano sue mete da anni. Valutati i pro e i contro, aveva traslocato a Sondrio. Priva di problemi economici e legami sentimentali, aveva lasciato quel ramo del Lago di Como.

***

C’era una volta un fidanzato, il Guido Verzoni, commercialista e gran torchiapalle. All’inizio andava bene: era simpatico e in apparenza pieno di interessi. Non era malaccio. Poi cominciarono le magagne. Le sue critiche le divennero insopportabili. Non ti sai vestire, da uno che si era tolto i calzini corti grazie a lei. Hai la mania della pulizia, e il gentleman vantava all’attivo un bagno alla settimana. Hai troppe tette, e nascondeva copie di Playmen in un cassetto della scrivania. Sei fredda, da un pasticcione con presunzioni di grande amatore: aveva letto un manuale sull’argomento e tanto gli bastava. Guai a contraddirlo. D’altra parte, sarebbe stato controproducente insistere.

Era troppo presuntuoso. A peggiorare la situazione, c’erano le frecciatine denigratorie, insaporite da risatine improvvise e ben distanziate. Delphine ci mise un bel po’ a capire il gioco: consciamente o inconsciamente, il Verzoni puntava ad alimentare le sue insicurezze. Voleva averla in pugno, proponendosi come porto sicuro. Durò tre anni.

Una sera erano attesi da amici. Lui passò a prenderla in ufficio e pronunciò la frase magica. «Dai sbrigati. Sposati, smetterai di sbatterti.» La giornata era stata particolarmente stancante e lei sarebbe andata direttamente a dormire. Ma mai avrebbe abbandonato l’impiego per il commercialista del piffero. La questione era quella. Non aveva comunque voglia di discutere e abbozzò. Ma ormai era scoccata l’ora della vendetta tremenda vendetta.

Il Verzoni aveva un hobby cui si dedicava con grande passione: i trenini elettrici. In una stanza del suo appartamento aveva costruito una linea ferroviaria che era un capolavoro di dettagli e precisione. I convogli sfrecciavano per valli e pianure, si fermavano nelle stazioni, fischiavano ai passaggi a livello. I viaggiatori, muti e con lo sguardo fisso, se ne stavano sulle banchine in attesa. Lui manovrava scambi, pianificava incroci perfetti. Mai un ritardo. Il sabato pomeriggio diventava ferroviere.

Delphine solitamente non partecipava. Avrebbe dovuto rimanere seduta in un angolo, in attesa che lui si stancasse. Quel sabato no. Cercò di condividere le gioie dell’amato bene. La prima ora trascorse velocemente. I problemi arrivarono in seguito. Non era più sicura di poter resistere. Stava per rinunciare. Il Guido arrivò in soccorso: andò in bagno. Sarebbe tornato di lì a poco. Bastò perché lei potesse mettere in piedi un disastro ferroviario. Un vero e proprio attentato.

Sollevò due trenini, li posizionò in modo che si scontrassero frontalmente e li fece partire. Il Verzoni entrò mentre i convogli erano in dirittura d’arrivo su un ponte. L’urlo che seguì sovrastò il rumore della ferraglia. Una motrice finì per terra e l’altra si capovolse come un animale morto, i vagoni si rovesciarono, una centralina elettrica andò in cortocircuito e il cessetto di una stazione in frantumi. Lei scoppiò a ridere. Anni di piccole carognate ebbero lì il riscatto. Intanto che raccoglieva i pezzi, lui le diede della disgraziata incapace.

«Incapace? Ma se l’ho fatto apposta.»

«Cosa? Tu sei pazza.»

«Sono sanissima. È che mi hai strarotto. Sei noioso, ignorante e penoso a letto. Addio e non cercarmi più. Ohhhh!» Prese la borsetta e uscì.

Il Verzoni la lasciò andare, forse persuaso che Delphine sarebbe tornata a cercarlo con tante scuse. Si sbagliava. Fu lui a tentare una riconciliazione. Lei resistette a tutti gli assalti.

Passato qualche mese, lui inciampò nell’anima gemella: una beghina battibanchi, piatta come un asse per lavare. Si sposarono in pompa magna. Fu un sollievo per Delphine. Ebbe altre relazioni, non molte, finché non arrivò Danilo. Il sogno finì in fondo al lago. Una curva ghiacciata, imboccata a tutta velocità, con l’auto nuova, chiuse la bella storia. Elaborato il lutto, lei non cadde nella trappola che l’avrebbe portata a crogiolarsi nel dolore, nella convinzione di aver perso l’amore perfetto. Imparò a stare con se stessa.

Non le fu difficile. A Sondrio, trovò un piccolo appartamento, al secondo piano di una palazzina in centro. Il balconcino del salotto dava sul cortile dello stabile. Di fronte si ergeva una vecchia abitazione di ringhiera, con un giardino che sapeva di antica nobiltà, ma trascurato. Delphine restava in Valle fino al mese di aprile. A maggio, partiva per la Costa Azzurra. Aveva ereditato dalla nonna il nome francese e un miniattico a Mentone, dove nonno Cosimo, cuoco e grande viaggiatore, si era fermato e sposato. Rientrato in Italia, aveva scelto Lecco per aprire un ristorante. Ora lei era tra le montagne, con nuovi amici e conoscenze.

Ricominciare la faceva sentire viva.

Questa è la fine dell’anteprima gratuita. 

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