Dag Da.Ri di Victor Togliani –
Un romanzo di fantascienza visionario e ironico che dal futuro fa un salto nel passato del I secolo d.C.
- Titolo: Dag Da.Ri
- Autore: Victor Togliani
- Lingua: Italiano
- Formati: kindle, copertina flessibile
- Editore: Oakmond Publishing (2020)
- Generi: Spionaggio, Romanzo, Fantascienza
In un futuro prossimo uno scultore digitale e la sua banda di giovani borderline fra cui un hacker, una poliglotta, una maestra di arti marziali e un transgender, tentano una rapina alla sede di una multinazionale.
Il colpo non va a buon fine dato che, proprio sul più bello, la banda viene scoperta. Inseguiti dalle forze dell’ordine, i fuggitivi entrano in un laboratorio nel quale trovano una strana macchina con la quale pensano di riuscire a scappare. Quello che però non sanno è che si trovano in una macchina del tempo che permetterà loro di fuggire ma che li catapulterà nella Galilea del 150 d.C.
Giunti nel passato devono destreggiarsi in molti modi per riuscire a sopravvivere oltre a cercare un modo per poter tornare nel proprio tempo.
Il romanzo è scritto in prima persona ed è il giovane scultore digitale a narrare ciò che accade in maniera molto diretta, fortemente ironica e quasi sempre sopra le righe.
In questo gioco surreale e fantascientifico che resta costantemente in bilico tra sacro e profano, sono molte le riflessioni su Gilgamesh, gli Anunnaki, Sitchin, il Mulino di de Santillana, i viaggi nel tempo, sesso, droghe, arte e Rock&Roll.
Acquista qui – Formato Kindle – Copertina flessibile
Comincia a leggere qui gratuitamente l’incipit del libro
Dag Da.Ri:
I
Sono ore che aspetto il segnale del Facocero e al buio il tempo non passa, ma se mi muovo rischio di farmi sgamare dai sensori dell’impianto centrale che è collegato con i flyer dei robo-pol.
Certo erano eòni che non si vedeva un periodo così scrauso, forse addirittura dalla grande crisi post-epidemia bat-sars del 2020.
Niente lavoro, montagne di strafottutissime tasse, una valanga di debiti e il conto in rosso very below the line.
Parole devastanti per un povero pirla asincronicamente onesto come me.
Allora ti ritrovi con la depressione che ti cala addosso come una camionata di merda e nuoti controcorrente cercando di non annegare da pantegana in questa fogna.
E ti capita di fare conoscenze.
Li incontri per caso.
Da quando Mel ti ha mollato per un sedicente scultore della luce, che potrebbe essere suo padre, la sera giri per i locali. Non certo quelli di Porta Nuova, visti i prezzi nella vecchia torre Cesar Pelli, e sei un cane da trifola in cerca di qualche evento che dia un senso alle ore che corrono via veloci col biglietto di solo andata.
Poi la presenza di quei bastardi si insinua nelle tue abitudini e quando ormai pensi che non ti possa più danneggiare, ti accorgi di aver già superato la sbarra del confine: il vaso ha traboccato, gli argini non hanno retto e praticamente… ce l’hai nel culo!
Ma come ho fatto a cacciarmi in questo materasso di piattole?
Tutta colpa delle mie letture demenziali.
Icke per esempio. Quello che nel secolo scorso sparava teorie psichedeliche sugli illuminati che controllano il pianeta e sull’egemonia della finanza nei governi mondiali!
È logico che ti venga da pensare che il furto, in un mega istituto di credito come la CreditSanta, non sarebbe in fondo da considerarsi alla stregua di una squallida rapina, ma piuttosto un’azione catartica contro i colpi di stato che i banchieri, camuffati da governi tecnici sovranazionali, stanno occultamente mettendo a segno in tutti i paesi occidentali.
Sono il solito coglione obsoleto, anarchico e utopista.
In fondo però Erik, il Facocero, è un tipo dannatamente simpatico.
Quando lo incontrai la prima volta, io avevo lo sguardo dello zombie e stringevo in mano un bicchierone quasi vuoto di cocapirinha.
«Ti ha scaricato la reginetta dell’anno di KeyHole e l’agente delle tasse ti ha lasciato in braghe di tela?»
Poi una risata che sembrava il verso di un maiale (da qui l’epiteto di facocero).
Bello, alto, biondo, un po’ più vecchio di me. Mi guardava con simpatia, senza commiserazione.
«Vieni al tavolo della briscola-chiamata, ci manca il quinto.»
E l’avevo seguito automaticamente, come un’anatra dietro allo stormo, ma la mia mente era ancora tra le gambe di Mel, circondata da improbabili circuiti luminosi.
Loro erano una banda di ragazzi dai modi rozzi, ma di estrazione borghese.
Dal linguaggio si intuiva che disprezzavano il contesto vetero-capitalista che dominava la scena mondiale ormai da troppo tempo.
Le ragazze erano uno schianto e così mi sentii piacevolmente cullato nell’abbraccio corale di quel manipolo di perdigiorno.
La schermata si è accesa. È il segnale di Erik.
Fanculo, siamo in ballo.
Quel figlio di una madre ignota è riuscito a bypassare il codice 1!
Infatti, ecco sul monitor della porta l’immagine holo-3D del codice 2.
Porca puttana: un soldato medievale… no, è un lanzichenecco.
Calma e gesso, fai scattare le sinapsi; come si può rispondere?
Dunque, se la star nella schermata è un maschio, armato, tedesco, luterano, con un abbigliamento colorato e pieno di fronzoli; il compètitor dovrebbe essere una donna, disarmata, romana, cattolica, vestita in modo sobrio.
Epoca: 1500.
Questa faccenda degli ologrammi da complementarizzare è un sistema di sicurezza brevettato da un mago degli effetti speciali di Shanghaywood; praticamente la versione tecnologica della vecchia parola d’ordine.
In questo caso la risposta deve corrispondere a un personaggio che incarni il fenotìpo contrario a quello sparato fuori dall’allarme e che interagisca con lui, come in un Holo-game.
Essendo il tutto gestito in ambiente tridimensionale, la risposta non è falsificabile, per via dell’alta tecnologia che è coinvolta nella sua realizzazione.
Se non si è in possesso della scheda con la pass originale, pare che nessuno sarebbe in grado di ricreare estemporaneamente una figura plausibile che possa interagire con la matrice. Ci vorrebbe troppo tempo per modellare il character richiesto, ovviamente dopo averne decifrato il codice iconografico. E questo per qualunque esperto; ammesso poi che abbia l’attrezzatura holo-3D, che è pressoché introvabile.
A meno che non si tratti di un super tecnico degli effetti speciali. Ma i rarissimi creativi digitali di questo livello sono tutti, per la vita intera, sotto controllo elettronico delle multinazionali attraverso i chip sottocutanei. E nemmeno loro riuscirebbero nell’impresa, in quella manciata di minuti che sono a disposizione per visualizzare la risposta.
Io però non sono un tecnico ufficiale di cinefex!
Ma creativo sì. Sono anche una scheggia nel disegno 3D.
Chissà se questa mia dote, che conoscono veramente in pochi, la banda l’ha scoperta in itinere, o se la faccenda non fosse in qualche modo premeditata.
Ma a questo punto che differenza fa?
Il caso vuole inoltre, ma deve restare un segreto, che io sia attualmente in possesso di uno dei pochissimi holo-maker-system di contrabbando, uscito fresco fresco dalla sylicon di Mombay.
OK! Importo la gnocca rinascimentale in 3-DH-studio, piratandola da un sito di modelle virtuali.
Mora, seno prorompente, fianchi generosi.
È complicato, ma riesco anche a vestirla con un abbigliamento dell’epoca, che sia credibile per gli scanner bancari. Il bestione in armi ragiona con logica elementare, bisogna fotterlo sul riconoscimento delle forme procedurali. Dopotutto la sua mente è una simulazione creata da un programmatore del cazzo.
Fatto!
E adesso dai il cinque al lanzichenecco baby.
Perfetto. Sono dentro al sistema. Apro la porta della terrazza superiore.
I ragazzi dovrebbero essere già arrivati col flyer silenziato di Giulia. La banca dati con gli accessi del caveau è all’ultimo piano.
Mi muovo verso gli ascensori ad aria. Due minuti e sono su, ma l’attrezzatura pesa un casino, per fortuna ho lo stabilizzatore.
Eccoli, ci sono tutti.
Erik mi abbraccia stringendomi forte: «Bella Maestro! Sei stato grande.»
Intanto i gemelli stanno già trafficando con il terminale per ottenere, con le buone, i codici del caveau.
Ovviamente c’è anche Estar con loro, non si sa mai; un talento come il suo si può sempre rivelare prezioso, anche nelle circostanze più inattese.
Prevedo ci vorrà del tempo.
Prigioniero in un gomitolo di filo spinato, ecco come mi sento adesso!
La situazione mi ricorda quel film antidiluviano, ancora in pellicola, della Bigelow.
Si intitolava Point break. Il protagonista, onesto, a forza di condividere le azioni malavitose della gang in cui si è infiltrato, finisce per prenderci gusto e si affeziona ai delinquenti.
Ma io non mi sono infiltrato, mi hanno risucchiato loro… come un mojitosynth!
La banda è formata da 6 elementi, con me fanno 7.
Angel è uno zen-hacker con laurea in ipermatematica godeliana. E sticazzi, verrebbe quasi da dire. Fisicamente ricorda un guerriero normanno: tozzo, ma agile e muscoloso. Ha il cranio rasato e orecchie a punta da elfo modellate chirurgicamente; un regalo della sua ganza Iria, splendido esemplare di femmina nera.
Lei vanta un corpo da pantera, occhi turchesi e una bocca E-N-O-R-M-E! Quando entra in un ambiente, con il suo elegantissimo passo felino, catalizza gli ormoni maschili che ci sono in circolazione sublimandoli in un distillato di melassa.
È un’atleta perfetta; conosce tutte le forme di combattimento orientale e ottiene dai suoi arti prestazioni che rasentano il paranormale.
Arhiman, il gemello di Angel, è identico a lui nei lineamenti, ma completamente diverso nel fisico: magro, ascetico, biondo, con capelli fluenti che gli scendono sulle spalle divisi in 3 code. Ha una memoria dellamirandolesca. Praticamente imbattuto in qualunque gioco. Sembra sia anche quasi-medico, nel senso che non è mai arrivato a una laurea.
Estar è la mia musa (ma questo non lo sa).
Potrebbe persino starci che adesso io mi trovi in questa valle di lacrime per colpa dei suoi occhi alieni.
Viso d’angelo e sguardo da demone sul corpo morbido e scattante di una imperial model. Ha i capelli decapati, completamente bianchi, come una bambola giapponese. Cosa vuoi di più dalla vita?
Va beh, ma a parte il trambusto che provoca nelle mie mutande, le sue doti migliori sono nel campo della decrittazione di qualsiasi cosa scritta, in qualunque tipo di grafia conosciuta. Pare fosse una secchiona maniacale, sia in linguaggi archetipali, che in fisica semantica, alla scuola correzionale Mudra-banda di Madras.
Il capo honoris causa è comunque Erik.
Scoppiettante come un imbonitore di spogliarelliste di New Orleans, sa essere profondo, stile Anassàgora e aperto, come un prete nel confessionale.
Per il suo grande carisma sei portato a credere a tutte le stronzate che ti racconta e questo, a volte, può anche costarti le chiappe.
Come appunto nella schifosissima situazione corrente.
Poi c’è Giulia, la donna del capo, una transgender praticamente perfetta!
Ricordate la pittura iperrealista del XX secolo?
Gli illustratori riproducevano, più che altro per le immagini pubblicitarie, una realtà alterata.
Esaltavano la forma e il colore delle cose per portarle verso una perfezione ideale che trascendeva l’immagine fotografica.
Correggevano ogni piccolo difetto e tiravano le tonalità a una saturazione falsa, ma molto più gustosa di quella vera.
Era per l’appunto un realismo esasperato.
Ed è quello che è avvenuto con i transessuali di ultima generazione, come Giulia.
Con l’aiuto dell’alta tecnologia raggiunta nella chirurgia estetica, il corpo diventa perfettamente femminile. Ma, già che ci siamo, si sono detti, perché non esaltare le forme fino a raggiungere e magari superare gli stereotipi erotici che sognano tutti i maschi?
Così Giulia incarna la bomba sexy che sta dietro l’immaginario testosterònico collettivo.
Gambe esageratamente lunghe, con caviglie sottili e polpacci pronunciati; le cosce impercettibilmente muscolose.
Culo tondo come una pesca matura e vita sottilissima che va ad aprirsi in un torace scolpito dal quale erompono due tette d’acciaio, fuori misura, coi capezzoloni duri. Pelle abbronzata, ma non troppo. La schiena, modellata nella curva della colonna vertebrale, ha due fossette vistose che stanno fra le chiappe e i reni, là dove la muscolatura si attacca alle ossa del bacino. Mani affusolate dalle unghie lunghe e sottili, labbra carnose e grandi occhi. Violentemente mora, coi capelli raccolti in una foltissima coda di cavallo; porta sempre tacchi da vertigine e calze nere (must che nel contesto erotico non tramontano da secoli).
Ok! Ma sotto?
Un corredo equino!!!
Non sono certo un moralizzatore alla Savonarola, però devo ammettere che quest’ultima appendice mi mette un po’ d’ansia!
Comunque questi sono i magnifici sette samurai della Neo-Ghisolfa.
Ah già, ci sarei anch’io, anche se nel profondo continuo a fingere con me stesso di essere estraneo al gruppo.
Che dire di me? Poca roba, ma se non finisce tutto a puttane ci sarà senz’altro un’altra occasione, dai.
La banda è molto unita. Non so da quali connessioni nasca questa fratellanza trascendentale, ma è certo che fa di loro un drappello di guerrieri spartani che, alla bisogna, possono salvarti i fondelli.
Come è accaduto l’anno scorso, durante il viaggio al Moon film festival nel Mare di Humboldt.
Li conoscevo da poco e avevo già scoperto il loro lato oscuro, ma mi mettevano di buon umore.
Erik, a cui avevo confidato la mia miserevole vicenda con Melissa, cercava di distrarmi. Forse per salvarmi dal baratro dell’oppio transgenico nel quale spesso i ragazzi cercano un illusorio e distruttivo conforto, sotto lo sguardo complice del Monopolio di Stato.
Mi sentivo protetto.
La sequela di cazzate che mi proponevano continuamente aveva su di me un effetto lenitivo.
Eravamo tutti appassionati di cinema olografico.
La tecnologia era esplosa in questo settore quando si erano costruiti i primi impianti di laser trigonometrici sulla Luna.
In quell’ambiente, senza un’atmosfera corrosiva e ossidante come quella terrestre e con una bassa forza di gravità, ottenere la purezza dei cristalli sintetici si era rivelato un gioco da ragazzi.
Nei primi decenni del secolo il cinema ricorreva ancora alle immagini elaborate con il vecchio sistema 3D, ma era quasi tutto da ricreare al computer e si dovevano usare gli occhialini per ottenere una visione stereo. Una bella menata!
Poi qualcuno mise sul mercato il primo proiettore olografico sperimentale e fummo di colpo liberati dalla schiavitù delle lenti polarizzate.
Si aprì un vero rinascimento del mezzo cinematografico.
In più l’ologramma ti dà la sensazione di stare fisicamente al centro dell’azione e, se ti sposti, puoi cogliere l’intera scena da una prospettiva diversa. Magico!
Il supporto non è ingombrante come le vecchie pizze di pellicola e non è nemmeno un disco, sul genere dei DVD o dei più evoluti easy-run, ma consiste in una piccola sfera trasparente che, in virtù di chissà quale divino incantamento, contiene l’intera storia di un film nella fantasmagorica realtà totale.
Le sale sono circolari, come gli antichi anfiteatri romani, e come allora ciò che guardi sta nel mezzo di questo spazio.
I maniaci come noi rivedono i film più volte per cogliere, semplicemente cambiando posto, infinite prospettive.
L’HHS (holo-home-system) è ancora ai primordi e gli apparecchi domestici hanno dei costi stellari. Meglio godersi lo spettacolo in qualche filmòdromo, magari in un buy center della suburbia.
Il festival più importante ed elitario si tiene ogni due anni sulla Luna, semplicemente perché gli sponsor ufficiali sono le ditte selenìte che fabbricano i sistemi olografici per il cinema.
Che figata! Si va?
Nemmeno fossimo miliardari con chip di credito metacarpale illimitato!
Solo il costo del traghetto lunare è proibitivo persino per un alto dirigente.
Però il nostro mentore aveva un asso nella manica: Agenti di controllo della CdN (Catena delle Nazioni) sull’immigrazione lunare, tassativamente in incognito.
I documenti per queste cariche, totalmente inventate da quel bastardo del Facocero, erano ineccepibili e, siccome nessuno ne aveva mai visti di uguali, chi avrebbe potuto con certezza negare che fossero veri?
Beh, bastava controllare le credenziali, direte.
E qui scatta il tocco di genio del boss: essendo sotto copertura, per mantenere l’anonimato, il ministero ci forniva i codici di riconoscimento, ma era costretto a negare l’evidenza di averli emessi. Anzi tutto il personale di volo era gentilmente tenuto a mantenere il silenzio per proteggere la nostra identità.
Dovevamo sembrare critici di holo-movie e in fondo, anche se forse un po’ troppo giovani, ne avevamo davvero l’aspetto. Certo sarebbe stato demenziale soltanto pensare che qualcuno avrebbe potuto abboccare… e invece! Manco fossimo a una pesca miracolosa sul lago di Tiberiade, pareva che tutti i dipendenti dell’astroporto e del Moon-bus, coinvolti nel controllo dei nostri (sic!) documenti, fossero onorati di fornire una copertura agli agenti del governo.
Maandateadarviailculo!!!
Io, che mi vedevo già marcire in qualche container di detenzione in uno slum delle zone radioattive ex-sovietiche, stavo mollemente stravaccato su una poltrona ergonomica del traghetto lunare, con destinazione Mare di Humboldt.
Ovviamente insieme agli altri sei e senza avere sborsato nemmeno un euràsiandollaro!
Ma non è finita.
La Luna, si sa, non è stata terraformàta. Sia per la scarsità di acqua reperibile nel sottosuolo, sia per la sua esigua forza gravitazionale che non tratterrebbe i gas (su Marte invece pare che il sistema stia attecchendo). Quindi nell’ambiente selenìta non c’è atmosfera e l’ossigeno deve poter arrivare al visitatore attraverso una tuta spaziale, o attraverso un ambiente ermeticamente chiuso che contenga la giusta miscela respirabile.
Le tute però si usano solo per le escursioni, ovviamente a pagamento.
Tutti gli spostamenti, da un ambiente pressurizzato all’altro, avvengono attraverso dei grossi rover lunari.
Con questa specie di taxi arrivammo al palazzo del festival (si fa per dire: una grossa bolla di materiale plastico).
E qui il boss ci confessa che le nostre tessere da news-pickers non avrebbero superato i controlli degli ispettori della sala stampa, che conoscevano tutti i giornalisti veri, già molto selezionati.
Ecchissenefotte, eravamo o no turisti lunari? Mi sentivo come Astolfo nell’Orlando furioso; qualcosa ci saremmo inventati.
Così, mentre studiavamo un nuovo piano, ci mettemmo a cazzeggiare bighellonando attraverso gli stand delle case di produzione per fare un po’ di moviestar-wathcing.
Giulia, uscendo frettolosamente dai bagni, ci raggiunse sorridendo e ci raccontò di aver notato una porta nella toilette che dava direttamente su una delle sale di proiezione. Bastava aspettare che qualcuno uscisse da quella via, per avere accesso, senza controlli, allo spettacolo.
Allora OK, tutti al cesso!
Devo dire che la sorveglianza era ridotta davvero al minimo. Sarà per il fatto che, essendo estremamente complesso e costoso arrivare sulla Luna, non avevano nemmeno preso in considerazione che qualcuno potesse andarci senza i documenti in regola. Ma è in questo mare che si muovono i surfisti della sciàmbola, sempre con un piedino sull’abisso!
Entrammo in sala a spettacolo iniziato e, mentre cercavamo dei posti liberi nel buio totale, nessuno si accorse della nostra intrusione.
Quando si accesero le luci, per la pausa tra un film e l’altro, analizzammo il pubblico: era formato dalle più alte personalità dello star-system tutte tirate a lucido!
Abiti disegnati dai migliori concept-designer del cinema, che ogni anno si azzuffavano per ricevere il premio all’idea più innovativa.
Guardandoci intorno ci rendemmo conto, con grande sorpresa, che l’attenzione della sala era concentrata su di noi.
Minchia, effettivamente eravamo abbigliati in modo quantomeno inappropriato per l’evento più mondano e sciccoso dell’anno.
Chissà cos’avranno pensato tutte quelle star vedendo un manipolo di balordi come noi, abbigliato alla sanfasòn.
Di sicuro qualcuno si sarà chiesto se non fossimo i figli ribelli di qualche grande attore o produttore, in versione rifiuto del sistema.
Infatti dopo qualche secondo, per fortuna, perdemmo di attrattiva e si concentrarono tutti sui volti più noti e naturalmente sulle mise.
Vedemmo gran parte della programmazione attraverso la via del water.
Per una settimana andò tutto liscio, ma l’ultimo giorno del festival io, che avevo passato la notte a sperimentare un nuovo programma holo, avevo raggiunto gli altri in ritardo.
Stavo attraversando in fretta la zona vespasiana ed ero ormai sulla porta della sala di proiezione, quando qualcuno mi mette una mano sulla spalla e mi dice: «Scusi signore, è solo una formalità, mi può mostrare per cortesia il suo pass?»
Beccato con le mani nella marmellata, stavo bofonchiando frasi sconnesse, ma Estar ed Erik si avvicinarono in fretta alla nostra postazione e ci riportarono verso la toilette.
Estar, sorridendomi: «Problemi col pass, amore?»
Ed Erik al controllore: «Su quello che sto per dirle la prego di mantenere il massimo riserbo. Lei conosce il Ministero sull’Immigrazione Lunare della CdN?»
Ed esibendo una quantità imbarazzante di documenti, gli stessi che ci erano serviti sul moon-bus, riprese l’identità dell’agente governativo in missione sotto copertura.
Il suo magistrale tocco di classe, unito a una smodata quantità di culo, convinsero il povero funzionario che, con un sorrisone furbo, alla fine ci disse: «Ok ragazzi, sarò una tomba.»
Tornati al Crater Hotel eravamo in overdose di adrenalina.
L’avventura è l’avventura! Per dirla da cinèfilo.
Le magnifiche chiappe di Estar, che camminava davanti a me nel salone del ristorante, ondeggiavano armoniosamente in sincrono coi miei pensieri.
«Amore? Mi hai chiamato A-MO-RE!» Le dissi ridendo, ma ero al settimo cielo.
Lei smorzava: «Non spariamo cazzate! Ti stavo solo salvando il popò, maestro.»
«Mi ha detto ammmore!» E continuavo a ridere come un cerebroleso.
Quello fu l’unico surrogato di avance che ebbi il coraggio di farle, ma non seppi tenere il gioco.
Chissà, più in là nel tempo…
Dire testa di cazzo sarebbe solo un eufemismo!!!
La voce di Angel ci risveglia di colpo dai nostri pensieri: «Ragazzi, nella hall del caveau ci sono due ingressi: uno è quello della caverna di Alì Babà, dove siamo diretti, l’altro porta a un’area che non sembra avere niente a che fare con la banca; ha più l’aspetto di una grande laboratorio.»
Erik ci fa strada verso gli ascensori: «Dritti alla caverna del tesoro!».
Mentre incominciamo a scendere verso i sotterranei, Estar se ne esce con: «Attento maestro, se continui a trasportare tutto quell’armamentario, potrebbero anche venirti i muscoli.» Ironizzando sulla reale entità del mio fisico, non proprio da superman.
Punzecchia, ma l’adoro!
Quando arriviamo nella hall ci dirigiamo verso l’ingresso della nostra miniera. Estar si ferma qualche secondo a guardare gli strani segni che ci sono sopra l’altra porta, poi ci raggiunge dicendo: «Caratteri cuneiformi!!! Ma sono fuori di melone?»
«E cosa c’è scritto?» le chiedo.
Lei, aggrottando le sopracciglia e guardando nel vuoto, come se leggesse su una lavagna: «Sembra Sumero: DAG DA.RI muoversi…per sempre. Ma tu guarda ‘sti sciroccati.»
Intanto il grande diaframma di acciaio del caveau si sta lentamente schiudendo; sembra l’immenso sfintere di un gigantesco mostro robotico.
Entriamo e guardiamo estasiati lo spettacolo delle celle di sicurezza che stanno uscendo all’unisono dalle pareti del tunnel.
Arhiman e Angel, i nostri mitici Diòscuri, si abbracciano con le lacrime agli occhi.
Ma cos’è questa musica? Sono le 3 del mattino, chiccacchio può esserci ancora negli uffici?
Bastardi, ci prendono per i fondelli.
Hanno attivato la intromusic ambientale per farci sapere che ci hanno localizzato.
Infatti, lo sfinterone sta incominciando a richiudersi!
«Fuori! Ho visto la pianta: nessuna via d’uscita in questa zona.» Grida Erik varcando in fretta il diaframma.
Lo seguiamo scaraventandoci nella hall, attraverso il buco che si restringe, per raggiungere gli ascensori.
Il segnale sulla pulsantiera lampeggia. Cazzo, stanno già arrivando.
Quando la porta si apre, tre guardie in uniforme da guerriglia urbana escono coi faser neuronali puntati.
È un lampo!
Iria, li stende tutti e tre. Passera divina!
Dopo aver trafficato per qualche secondo con lo scanner della porta in cuneiforme, Angel, sfoggiando un sorriso sornione e tranquillizzante, ci fa cenno di seguirlo attraverso la possibile nuova via di fuga.
E mentre noi ci incamminiamo nel corridoio del laboratorio, Arhiman richiude l’ingresso. Anche se momentaneo, è sempre un argine contro il commando dei tecno-cops, dopotutto sono umani… con i robo-pol saranno cazzi!
Il cunicolo, a sezione esagonale, fa un’ampia curva; non ci sono porte laterali.
Sembra di essere in un’astronave. Lo spazio non è gestito come dovrebbe all’interno di un edificio bancario. Qualcosa non torna.
Lungo le pareti il marchio cadenzato della Credit-Santa lascia il posto a un altro logo che ho già visto da qualche parte.
«Chi sa dirmi che nesso c’è tra una banca e una fabbrica di armi chimiche?» Sbotta il Facocero, che ha notato il nuovo simbolo.
Adesso lo riconosco anch’io. È quello della Daliankemik, la multinazionale di origine cinese che si occupa praticamente di tutto: dal cibo, alle materie plastiche, dagli aerei vertex, ai diserbanti da terraformazione, fino ai carburanti per gli space-cab. È presente come partner in una miriade di aziende diffuse a livello planetario.
Alt: siamo arrivati!
In fondo al corridoio una complessa saracinesca elettronica, azionata da potenti ganasce idrauliche, pone termine al nostro fatale andare.
Colpi sordi e rumori di ferraglia provengono dal varco dei Sumeri che ci siamo lasciati alle spalle. Non terrà per molto.
«Lasciate ogni speranza…banda di coglioni.» Avrebbe detto James Coburn in Giù la testa.
Agli angoli del nuovo ingresso blindato, grande come tutto il corridoio, ci sono sei rientranze dalle quali sbucano altrettante armi elettroniche, che seguono i nostri movimenti con puntatori agli infrarossi.
Sulla porta d’acciaio campeggia una scritta che recita eufemisticamente: ZONA RISERVATA. Un po’come chiamare dissuasore un cruiser con testate nucleari!
Il leggero ronzio dei motori che azionano i movimenti delle berte automatiche, accentua il silenzio che è calato fra i nostri ranghi.
Topi in un labirinto senza uscita!
Questa è la fine dell’anteprima gratuita.
Acquista qui – Formato Kindle – Copertina flessibile