Il bianco e il nero di Matteo Bocchino –
Segreti e bugie inconfessabili in convento.
- Titolo: Il bianco e il nero
- Autore: Matteo Bocchino
- Lingua: Italiano
- Formati: kindle, copertina flessibile
- Editore: Oakmond Publishing (2022)
- Generi: Romanzo, Romanzo storico, Narrativa
Suor Angelica nasconde un segreto che minerà la solidità della comunità monastica: se di giorno vive la vita del monastero, di notte una veste bianca la trasforma in Frine, una giovane prostituta in un bordello di paese. Cosa accadrà quando una gravidanza getterà l’intera Abbazia nel caos?
Eppure, quello di Angelica non è l’unico segreto dell’Abbazia di Burghio: monaci e monache hanno le vesti macchiate da peccati di sangue e di lussuria, di segreti di un passato dimenticato: frate Luciano, per esempio, va in cerca di una giustificazione alla presenza del male nel mondo; frate Guglielmo nasconde segretamente il dramma della lacerazione tra Dio e la Natura; o ancora, suor Fiammetta vorrebbe capovolgere ogni gerarchia; mentre, suor Agata si abbandona a un amore proibito e lussurioso.
Fili narrativi diversi che si incontreranno quando l’ispettore Lucilio sarà chiamato a risolvere il caso del misterioso omicidio di una coppia di anziani che vive nei pressi dell’Abbazia.
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Il bianco e il nero:
PREFAZIONE
Burghio è un piccolo paese dal sapore di eterno, situato nella valle compresa tra la catena montuosa delle Alpi e la cordigliera delle Ande, tra le vette dei Pirenei e la spina dorsale dell’Himalaya; una valle bagnata dal Reno e dal Volga, dal Mississippi e dal Nilo, dal Gange e dal Paranà. Talvolta è così lontano da non poter essere raggiunto neppure da un Boeing X-43A; nella maggior parte dei casi, però, basta chiudere la porta del silenzio, vagare per le stanze sconosciute della propria abitazione, e ci si rende conto di essere a Burghio. Ed è proprio così che mi ritrovai davanti alla maestosa Abbazia di Burghio, di fronte alla quale mi sentii come dovrebbe sentirsi un uomo al cospetto di Dio.
Quell’ombra che mi inghiottiva sembrava della stessa sostanza della densa oscurità dell’Inferno; la mirabile altezza dell’Abbazia era paragonabile a quella del monte del Purgatorio, dalla cui cima, proprio lì dove pare situarsi il giardino dell’Eden, è possibile ammirare da lontano quelle che un tempo furono le colonne d’Ercole, così come dall’Abbazia si poteva scrutare ogni più piccolo particolare del paese di Burghio, collocato proprio al centro della valle; l’armonica distribuzione delle colonne ioniche all’ingresso, la croce in ferro illuminata dal sole tiepido, i canti melodiosi che affogavano il pianto singhiozzato di un organo di Barberia, che sembravano provenire dall’interno, ebbene tutto ciò mi fece pensare di essere in Paradiso. Quello che feci fu spingere il pesante portone della chiesa d’ingresso, sul quale erano scolpiti bassorilievi che rappresentavano scene dell’Antico Testamento, e all’improvviso fui come inghiottito dal caotico silenzio eterno.
Vagavo da una stanza all’altra di quell’Abbazia labirintica, per la quale non c’erano bussole né carte di riferimento: luoghi senza nome, stanze senza persone, chiese senza sacralità. Fu proprio in questo girovagare di perdizione che mi immersi nella polvere degli scaffali di quella che doveva essere la biblioteca dell’Abbazia. Ma non c’era nulla di labirintico nella biblioteca! Forse quello era il luogo più ordinato dell’intera struttura: i tomi sugli scaffali erano ordinati in base al colore, alle dimensioni, e al genere letterario a cui appartenevano le storie in essi narrate. Fu come un sollievo: quell’armonia, che era paragonabile soltanto a quella che dominava la facciata esterna dell’Abbazia, mi fece trarre un sospiro di ristoro. Immerso in quell’ordine, che sebbene artificiale pareva dettato dalla Natura stessa, presi a sfogliare quei tomi polverosi, immergendomi nelle pagine ravvivate dall’odore di inchiostro putrefatto. Erano storie di ogni tipo, narrazioni eterne che non sarebbero certo terminate distruggendo quei volumi. Proprio sfogliando le pagine di uno di quei libri, cadde a terra un foglio bianco, un po’ ingiallito ai margini: si trattava di una lettera scritta, probabilmente, da uno dei monaci che vissero nell’Abbazia, indirizzata a una suora. Ne riporto il contenuto di seguito.
Mia Fiammetta,
vi giuro (blasfemo!) che queste sono le ultime righe che vi scrivo. So bene che queste mie parole non avranno risposta alcuna, giacché voi siete in partenza per chissà dove, mentre io qui non faccio altro che piangere e pensarvi; non mi nascondo più dai confratelli, poiché ormai tutti conoscono il mio dolore e dov’esso affonda le sue radici. Anche il loro umore, però, non è certo dei migliori: l’Abate s’è ammalato, frate Luciano e frate Guglielmo vogliono andar via: insomma, gli scandali che hanno colpito l’Abbazia non sono passati inosservati. Ho saputo anche del destino di tutte le vostre consorelle, e quanto mi cruccio per il piccolo Samuele: chi avrebbe mai pensato che una monaca potesse mettere al mondo un bambino? Scandalo! Ma non fu questo lo scandalo maggiore, sebbene tutt’oggi si parla soltanto della monaca incinta; ogni notte m’assale l’immagine di quel cadavere avvolto in quel lenzuolo bianco, sporco di terra bruna: povero innocente! Ma ciò che mi turba di più è senz’alcun dubbio il vostro schiaffo, mia Fiammetta: lo ammetto, ardii troppo, ma fu soltanto colpa dell’Amore! Non mi pentirò mai abbastanza del mio ardire, che mi fece perdere voi, ma non la fiamma d’Amore, la quale brucia nel mio petto, con una violenza maggiore di prima. Forse, andrò via anche io, proprio come tutte voi, e come Luciano e Guglielmo: ogni luogo dell’Abbazia mi ricorda il vostro volto di fuoco, e quello schiaffo punitivo. Sì, non posso far altro che andar via! Spero soltanto che voi leggiate queste ultime parole. Vi amo, e vi amerò sempre, Fiammetta! Vi amerò in ogni luogo, in ogni Abbazia, in ogni pagina stinta. Vi bacio, giacché sono ardimentoso anche nell’addio.
Vostro Guido
Appena terminai di leggere la lettera, mi apparve dinanzi agli occhi il volto pallido di suor Angelica, e poi la chioma dorata di suor Agata, e i ricci del giovane Cristoforo; in un angolo della stanza, suor Berenice, suor Clorinda e suor Benedetta pregavano in ginocchio, mentre suor Lucrezia stringeva tra le braccia il piccolo Samuele; frate Guglielmo disquisiva con frate Guido che, però, non lo ascoltava, intento com’era a osservare le movenze leggere di suor Fiammetta; frate Luciano e frate Leopoldo discutevano animatamente, mentre l’Abate tentava di placarli, sotto lo sguardo annoiato della Madre Badessa. Comparve anche Madame Thérèse, al centro della stanza, con la sua risata rumorosa e le movenze goffe e appesantite, mentre suo marito Barney seguiva con gli occhi la gonna bianca di Taide; e c’era Tommaso tra sette bare di vari tipi di legno, che si prendeva cura di sua madre, distesa su un divano; e poi ancora l’ispettore Lucilio, e il dottor Lemertani, che sembrava non sapere dove fosse, e Rumi e Gluper. Mi spostai anche io, senza camminare: eccomi in una locanda riempita da uomini fradici di vino, e poi in una chiesa, e poi in una casa spersa nel bosco: ecco poi un grande incendio (allora, pensai di essere giunto all’Inferno), per poi finire al centro della piazza di Burghio, mentre la folla radunata gridava: «A morte!.» Era il 1875, o forse il 1659, o il 1932; un passante mi disse che eravamo, senza alcun dubbio, nel 2146. Quello che capii era che forse ero nel 1875 o forse nel 2146, ma ciò non aveva alcuna importanza a Burghio: quel luogo eterno era estranio alla storia, sebbene più volte la storia vi fece irruzione.
Tornato nella biblioteca, osservai il libro dal quale era caduta la lettera. Sulla copertina si leggeva in corsivo: Nevolo, o semplicemente Augusto Lemertani. Secolo XIX. Più in basso, quello che doveva essere il titolo: Il bianco e il nero. Il nome di Augusto Lemertani non mi era affatto sconosciuto: ero certo di averlo già sentito. Più tardi, avrei scoperto che il dottor Lemertani altro non era che l’uomo che si nascondeva dietro lo pseudonimo Nevolo, con il quale era solito firmare i suoi pochi versi scritti in gioventù. Non aveva mai pubblicato le sue poesie; da quanto mi è stato riferito, sembra che le custodisse in un piccolo taccuino, sul quale aveva inciso il suo nome da poeta: Nevolo, per l’appunto. Perché scegliere uno pseudonimo se non si ha intenzione di pubblicare? Ad Augusto Lemertani semplicemente piaceva chiamarsi in altro modo, così da avere un nome per la vita e un nome per la poesia. Perché non pubblicò mai le sue poesie è cosa facile a dirsi: era un tipo timido, spaventato da quell’affollarsi di grandi nomi di poeti che si accumulavano ai suoi tempi. Tutti scrivevano poesie, e Augusto Lemertani non voleva che il suo nome, o pseudonimo che fosse, comparisse accanto agli altri, né ebbe mai il coraggio di leggere le sue poesie a qualche altra anima.
La cosa che più mi sorprese, però, fu la scoperta di essere intimamente collegato alla figura di Augusto Lemertani. Pare che sia stato un mio antenato, uno di quei nomi che appaiono e scompaiono negli alberi genealogici, e che il suo libro, Il bianco e il nero, sia stato tramandato nella mia famiglia da almeno quattro o cinque generazioni. Ho deciso, così, di pubblicarlo, sostituendo qualche vocabolo desueto con altri più moderni, adattando il più che mi riuscisse la punteggiatura all’uso di oggi, e cambiando lo stile di qualche periodo un po’ troppo complesso, ma senza tagliare nulla dell’originale. È questo il riscatto di Augusto Lemertani: se anche solo una persona leggesse queste pagine, ciò basterà a rendere un po’ più vivo l’inchiostro morto di Augusto Lemertani.
Il giorno in cui trovai il manoscritto, mi limitai ad aprirlo e a leggere ad alta voce una nota sulla prima pagina, facendo rivivere nella mia voce quella dell’autore: «Il mio intento, dunque, è quello di narrare i fatti che accaddero all’Abbazia, così come mi si presentarono dinanzi agli occhi. Narrare, soltanto per narrare: d’altronde, è questo lo scopo della letteratura. L’obiettivo primario di un narratore è quello di raccontare una storia: potrebbero essere inseriti spunti di riflessione, momenti in cui lo sguardo è rivolto altrove, ma ciò che è alla base di un qualsiasi libro è sempre una storia. Anche il più importante testo sacro cristiano, la Bibbia, non è altro che una lunga storia, una storia secolare certamente, ma pur sempre un insieme di fatti; si veda, per esempio, il libro della Genesi, libro proemiale, in cui non ci sono riflessioni complesse, ma soltanto una lunga e affascinante storia, che va dalla creazione del mondo alla morte di Giuseppe in Egitto. La narrazione s’interrompe talvolta per dare spazio a elaborate genealogie: ma cos’è una genealogia se non la storia di una stirpe? Tutto ciò che ci circonda, dunque, non sono che narrazioni, talvolta semplici, talvolta complesse: nella vita quotidiana, nessun uomo può fare a meno di raccontare. La letteratura nacque con quest’unico scopo: narrare.
È tempo, dunque, di immergersi nella pagine del Pentateuco di Burghio.»
LIBRO PRIMO
IL BIANCO E IL NERO
I
In principio Dio creò il cielo e la terra; in seguito, fu creata l’Abbazia di Burghio. Nessuno sapeva dire chi ne avesse voluto la costruzione, né quante mani contribuirono a mettere su quell’architettura tanto imponente quanto armoniosa, e neppure quale architetto o quale mente di straordinario ingegno avesse potuto anche soltanto concepire un disegno di un così rigoroso equilibrio, in cui ogni singola parte rispettava proporzioni divine con l’insieme, replicando in ogni luogo quello che i matematici definiscono numero aureo: per esempio, la superficie intera dei due dormitori, uno per i monaci, l’altro per le monache, altro non era che la somma delle aree delle singole celle ripetuta per 1,618 volte; allo stesso modo, il rapporto tra le dimensioni dell’area del chiostro dei monaci e quella del refettorio era pari a 1,618.
Un numero che poteva tornare non soltanto nelle proporzioni tra i vari luoghi dell’Abbazia, ma anche scisso nelle sue cifre costitutive nei modi più bizzarri: ad esempio, le colonne ioniche della facciata d’ingresso erano a distanza di un metro, sessanta centimetri, e diciotto millimetri l’una dall’altra; oppure, nella chiesa centrale (quella di maggiori dimensioni) si potevano iscrivere esattamente sedici quadrati di un metro e ottanta centimetri per lato; e si potrebbe continuare col dire che nella biblioteca erano iscrivibili sedici cerchi il cui diametro aveva la stessa lunghezza dei lati dei quadrati della chiesa centrale, mentre nella piccola cappella delle monache si potevano iscrivere ventotto triangoli equilateri (numero e figura divini!) di lato pari a un metro, sessanta centimetri e diciotto millimetri. Dunque, date codeste proporzioni divine, tutti attribuirono l’edificazione dell’Abbazia di Burghio non a un architetto umano, bensì a Dio in persona, che forse volle costruirsi una casa in cui riposarsi tra una creazione e l’altra.
Era proprio all’Abbazia che si stava dirigendo la giovane Angelica, pochi giorni prima del santo Natale. Senza alcun dubbio, quello doveva esser stato l’inverno più rigido del secolo: la neve aveva ricoperto le strade e i tetti delle case di Burghio già dal mese di novembre, seppellendo i ciclamini e le ortensie che nascevano spontaneamente ovunque ci fosse terra che potesse nutrirli. Da bambina, Angelica amava la stagione della neve: non appena cadevano i primi fiocchi, usciva fuori casa con suo fratello Tommaso, correndo tra gli stretti vicoli del paese, ghiacciati e silenziosi; oppure, quando le nevicate erano abbondanti, si gettavano a terra, allargando le braccia e muovendole sopra e sotto, in modo da creare sulla neve la figura ombrosa di un angelo, misteriosamente caduto in un paese dimenticato dal mondo, come doveva essere accaduto per Burghio. Adesso, però, avrebbe preferito non essere circondata da tutta quella neve, non riuscendo più a sopportare il gelido formicolio sotto i piedi, provocatole dal contatto quasi diretto con il manto bianco.
Il signor Sicher era riuscito ad accompagnarla in carrozza fino a metà strada; poi, il sentiero, che si faceva più stretto man mano che si saliva verso la parte più alta del monte, fu bloccato da così tanta neve che i cavalli ne ebbero paura. Nonostante il caldo sorriso rivolto da Angelica a quell’uomo che non smetteva di scusarsi, in cuor suo, la ragazza era molto spaventata: sapeva bene che mancava ancora molta strada e che, da quel punto in poi, avrebbe dovuto proseguire a piedi, completamente sola; a intimorirla in quel modo non era soltanto il percorso – una lunga successione di ripide salite e discese scivolose – ma anche il pensiero di dover camminare sulla neve gelida con delle scarpe, se così potevano esser definite, che altro non erano che piccoli frammenti di stoffa cuciti intorno ai piedi; in aggiunta, aveva con sé una pesante borsa, contenente tutto ciò che possedeva, che sebbene non fosse molto, in quelle circostanze le pesava fin troppo. Tentò di coprirsi quanto più le fosse possibile con un coprispalle di lana un po’ consumato, che le era stato regalato dalla nonna materna poco prima che morisse.
Dopo un’ora di cammino, sentì le gambe cedere, e cadde sulla neve, come cade un corpo morto; fu allora che comprese di aver bisogno di riposarsi. Si sedette su un tronco tarlato caduto a terra, fissando immobile il cielo pallido. Da bambina, era solita perdere lo sguardo in quella infinita e leggiadra danza a cui paiono ispirarsi i fiocchi di neve, mossi dall’aria fredda di su e di giù; inizialmente, si proponeva di fissare un unico fiocco, al fine di studiarne ogni singolo movimento: poi, però, questo si mescolava nella coreografia di tutti gli altri fiocchi, e lo sguardo innocente di Angelica si smarriva, dolcemente estasiato, in quel trionfo di armonia e di candore. In quella danza bianca nel cielo più bianco, rivide il volto rassicurante di Tommaso, che, con lo sguardo rapito dallo splendore, le diceva: «Non noti una somiglianza tra gli esseri umani e i fiocchi di neve? Guarda: questi fiocchi sono tutti così simili tra loro: bianchi, tondeggianti, così soffici da sembrare cotone. Eppure, ci sono tante piccole differenze che li rendono unici, ineguagliabili, cosicché non si possa trovare un fiocco identico a un altro»; gli occhi del fratello seguirono poi il cadere dei fiocchi sulla neve inumidita, quella che s’era già posata a terra: «Ma ecco che cadono», disse con tono di sconforto. «Cadono, e si perdono nella massa; ed è a questo punto che si privano di tutte le loro particolarità: i tanti fiocchi così diversi diventano un grande pezzo di neve, compatto, definito, omogeneo, unico.» Senza rendersene conto, trasportata dal fluire magmatico dei ricordi, Angelica aveva preso un po’ di neve dal tronco sul quale era seduta, neve che giaceva inerme sulla sua mano, mentre lei la accarezzava e sorrideva. Poi, si alzò: un solo passo, e cadde a terra. Il volto pallido posava sul manto bianco e, senza che lei neppure se ne accorgesse, la neve le aveva avvolto le labbra, spingendosi fino ai denti, alla lingua, e al palato; un gelido tremolio della mascella la scaraventò nuovamente nel vortice dei ricordi, riconducendola agli anni dell’infanzia, quando la madre, che a quel tempo godeva ancora di ottima salute, era solita raccogliere la neve dai rami più alti degli alberi, offrendogliela in una tazza con l’aggiunta di miele. «La neve si può mangiare?», la voce stridula di bambina le rimbombò nella testa; «Certamente», le rispondeva sua madre, accarezzandole prima i lunghi capelli scuri e poi le gote rosse. «Sono sicura che ti piacerà! Non vorrai mangiare altro!.» La sensazione della neve e del miele sotto il palato, sulla lingua e sui denti, quel brivido tanto pungente quanto piacevole le riscaldava il cuore; e col cuore caldo, Angelica poté rimettersi in cammino.
Fu costretta ad affrontare due salite, la prima più ripida della seconda; in un primo momento, portò avanti soltanto il piede destro, ben saldo, evitando di far cadere neve su quello sinistro, rimasto più giù; poi, fece avanzare anche l’altro, e con l’aiuto di un bastone ripeté l’avanzare lento per entrambe le salite. Al termine della seconda, finalmente le apparve l’Abbazia in tutta la sua maestosità: il grande campanile ostentava la propria imponenza dall’alto della roccia sulla quale sorgeva l’intero edificio, che pareva nascere direttamente dal costone della montagna, così come un albero affonda le sue radici nella terra che lo nutre. Le pareti ceree del monastero sfidavano con vanto l’orlo del precipizio, quelle pareti sulle quali campeggiavano decine di finestre pallide, come carte da gioco disposte su un tavolo di legno. L’Abbazia vigilava dall’alto sul piccolo paese di Burghio, e quasi sembrava protendersi verso la valle, come una madre che si allunga in atto di protezione verso il figlio. La neve aveva smesso di cadere da un po’, ma il silenzio che aveva portato con sé non aveva cessato di avvolgere ogni cosa, un silenzio che, in quel luogo di pace e di preghiera, si addensava in misura maggiore, tanto da condurre la mente della ragazza come in un’altra dimensione.
Fu il verso stridulo di un merlo a interrompere la quiete; Angelica alzò gli occhi al cielo, e scorse una piccola macchia nera disegnare cerchi infiniti tra le nubi. Il merlo volò giù, precipitò lungo la parete rocciosa del precipizio; la ragazza lo seguì con lo sguardo: la macchia nera sfiorò la grande quercia sulla quale lei aveva posato gli occhi quando si trovava sulla carrozza del signor Sicher; si riposò poi sui rami di un alto pioppo, per poi volare rapida verso le tegole rossastre che macchiavano il paese. Angelica rivolse nuovamente lo sguardo al monastero: il suo animo si riempì di pace e di tranquillità, una sensazione che non provava da molto, anzi faticava a ricordare se l’avesse mai conosciuta. Quel tetto scuro, quel silenzio tanto assordante, quel vuoto davanti a sé: tutto ciò le premette sul petto, come una fitta. Stanca, tentò di muovere le gambe tremule sulla neve che, forse, non era gelida quanto lo era lei adesso. Passo dopo passo, sentiva la neve caderle sui piedi, bagnare la stoffa delle scarpe, penetrarle nella pelle, scorrerle nelle vene, sciolta nel sangue, fino ad avvolgerle le ossa. E mentre continuava a strascinare la borsa bagnata a terra, radunò tutte le forze rimastele per aprire la bocca e prendere un respiro. Vedeva l’Abbazia sempre più vicina; ormai, era a pochi passi da lei. Non appena arrivò al suo cospetto, la facciata le fece ombra, un’ombra diversa dal solito: un’ombra calda, accogliente, piacevole. Quell’ombra la strinse a sé, proprio come sua madre la stringeva al petto fino a qualche anno prima; e fu proprio la voce di sua madre a sussurrarle all’orecchio di stare tranquilla: ormai, era giunta a destinazione. Allora, alzò nuovamente lo sguardo lucido verso il cielo: l’imponente facciata in pietra veronese si stagliava contro il cielo pallido, e quasi sembrava prendere voce e gridare la sua onnipotenza; su di essa, campeggiavano quattro semicolonne di ordine ionico, poggianti sulle rispettive basi attiche, sulle cui scozie erano incisi quattro versetti tratti dai quattro Vangeli; ogni semicolonna era solcata da ventiquattro scanalature, giacché secondo san Girolamo ventiquattro altro non è che il risultato della moltiplicazione dei quattro elementi del creato per i sei giorni della creazione; infine, per quanto riguarda i capitelli, erano quelli tipici dell’ordine ionico, come ben dimostravano le sinuose volute e l’echino, decorato con ovuli e dardi. Tra le semicolonne centrali s’apriva un enorme portone, che Angelica poté osservare meglio soltanto quando fu più vicina, e ch’era come protetto all’interno di un protiro, sul quale sovrastava una loggia di piccole dimensioni, l’unico elemento dell’architettura a proiettarsi verso l’esterno, come due labbra carnose pronte a succhiare i visitatori. Invece, nella parte bassa dello spazio compreso tra la prima e la seconda semicolonna e quello tra la terza e la quarta, erano scavate due piccole nicchie, che proteggevano due statue: a destra, la statua di san Serapione il Sindonita, rappresentato nell’atto di rivolgere gli occhi al cielo coprendosi le nudità con gli Atti degli Apostoli; a sinistra, invece, santa Maria di Edessa, la quale si chinava per raccogliere una mela ai suoi piedi. Nella parte alta dei due intercolumni, invece, si allungava una serie di trifore di straordinaria eleganza, i cui pilastrini erano tanto sottili da sembrare che si potessero spezzare da un momento all’altro, avvolgendo la struttura in un’apparente precarietà. A dividere tutto ciò dal timpano, era soltanto un architrave, unico elemento della trabeazione: quello stacco netto si opponeva all’armonia neoclassica che dominava l’intera facciata, senza però romperla. Il timpano era al tempo stesso semplice e imponente, perfetta dimostrazione di come due aggettivi possono opporsi in alcune circostanze, sovrapporsi in altre; in effetti, l’unico elemento della parte più alta della facciata era un rosone, che occupava la maggior parte dello spazio racchiuso tra le falde inclinate del tetto. Cerchio perfetto, quel rosone era l’unico aspetto gotico che campeggiava sulla facciata: al centro dei raggi concentrici che lo costituivano, si creava un cerchio più piccolo, nel quale trovava spazio una croce. Il messaggio era chiaro: nella parte più alta della facciata era rappresentato l’infinito e onnipotente occhio di Dio, che imponendosi in quel modo, suggestionava chiunque si trovasse al suo cospetto. E così, dovette essersi sentita anche Angelica, che ora ricominciò a tremare.
Questa è la fine dell’anteprima gratuita.
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