Nightshade: Obiettivo Sickrose di Andrea Carlo Cappi –
Lei è la donna che preme il grilletto.
Qualcuno muore e la storia del mondo prende un altro corso.
- Titolo: Nightshade: Obiettivo Sickrose
- Autore: Andrea Carlo Cappi
- Lingua: Italiano
- Formati: kindle, copertina flessibile
- Editore: Oakmond Publishing (2020)
- Generi: Spionaggio, Romanzo, Thriller, Giallo, Noir, Narrativa
Per mettere in atto i piani della sua organizzazione, Eduardo Contreras deve risolvere due problemi: recuperare vecchi codici ormai dimenticati e annientare la Sezione D, l’unica della CIA a considerarlo una minaccia.
La duplice sfida porta a confronto sua figlia Mercy, ora agente della Sezione D con il nome in codice Nightshade, e la killer più letale dell’organizzazione, conosciuta come Sickrose. Mentre si prepara un attacco spettacolare che metterà gli USA in ginocchio, le due avversarie si inseguono da Santo Domingo a Manhattan.
E di solito, quando due tigri si scontrano, solo una delle due sopravvive.
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Nightshade: Obiettivo Sickrose:
Preludio
Cayo Almirante, Honduras, 17 giorni allo zero
Il re era solo.
Eduardo Contreras soppesò il bicchiere di rum, il compagno più fedele da dieci anni a quella parte, e rifletté su quanto gli aveva detto il suo luogotenente. La loro più grande vittoria era vicina, così vicina che Contreras quasi poteva toccarla. Ma, sullo stesso vassoio, gli era stato servito il promemoria della sua più grande sconfitta.
Una notizia buona e una cattiva.
Quella buona era che il piano stava funzionando.
Quella cattiva era che il suo principale avversario era sangue del suo sangue.
Quando aveva lasciato la sua terra natale per stabilirsi in Honduras, era convinto che i suoi uomini avrebbero conquistato, se non il mondo, almeno il continente. Dio era con loro, la CIA era con loro. Per seguire quella causa aveva abbandonato una moglie, l’unica vera donna della sua vita. Ma il mondo di Eduardo Contreras era fatto di sangue, di guerra e di violenza: per quanto avesse cercato di tenerla lontana dal proprio lato oscuro, Valeriana lo aveva percepito. Ogni volta che lui tornava da lei, a Siviglia, lei gli leggeva in faccia quanti uomini avesse interrogato, torturato e mandato al garrote. Valeriana non aveva mai capito la sua battaglia. E nel 1975… Mio Dio, quasi trent’anni prima, pensò.
Nel 1975 Eduardo Contreras si era preso tutto quello che gli restava della sua vita con Valeriana Torres: la loro figlia. Aveva cercato di crescere ed educare Mercedes a propria immagine e somiglianza. L’aveva affidata alle cure della sua assistente Juana Hellerop, di Julio Ferguson Ballesteros e degli altri istruttori dell’isola. Non aveva un figlio maschio, ma aveva cercato di fare di lei la propria erede. E c’era quasi riuscito.
Poi, un giorno, il serpente era entrato nell’Eden. Una spia cubana aveva corrotto la mente di sua figlia e l’aveva trasformata in una nemica, L’aveva addirittura convinta a tentare la fuga. Non avevano fatto molta strada: li avevano trovati a La Ceiba, sulla costa. Ma ormai era tardi. Sua figlia Mercedes non gli apparteneva più.
Per tre anni Contreras l’aveva tenuta prigioniera a Cayo Almirante, sperando di convertirla nuovamente alla propria causa. Ma aveva fallito. Era stato costretto ad arrendersi, a lasciarla andare. C’era stato un patto fra di loro. E ora Eduardo Contreras sapeva che quel patto era stato tradito.
Sua figlia non era più un nemico.
Mercedes era diventata il nemico.
Contreras bevve un sorso di rum. Anche lui era un prigioniero, nel proprio regno, e quello era uno dei pochi piaceri che si poteva concedere. In quel momento, ne aveva più bisogno che mai.
Le notizie che gli erano state comunicate erano devastanti. Era stata Mercedes a portare al fallimento la prima fase dell’Operazione Grendel, un anno prima. Era stata Mercedes a portare a termine l’operazione clandestina in Louisiana, il ventiquattro aprile, e indirettamente gli aveva fatto un favore, ma solo perché pensava il contrario.
Sua figlia stava mettendo a frutto tutto ciò che le era stato insegnato, certo. Ma contro di lui.
Per questo Contreras aveva dato l’ordine.
Riportatela da me.
Riportatela a casa.
Prima parte
GIOIA CREMISI
1
A est del Lago Pontchartrain, Louisiana, 24 aprile 2003
L’aspetto esterno era quello di una piccola base militare, circondata da alte mura coronate di filo spinato. Davanti all’ingresso stazionavano due sentinelle, che vigilavano annoiate su una strada in cui non passava mai nessuno.
Alle loro spalle il cancello era aperto e l’unico ostacolo che ostruiva l’accesso ai veicoli era la sbarra metallica orizzontale. Accanto a questa sorgeva un gabbiotto vetrato, nel quale il soldato Brouard, non meno annoiato dei suoi colleghi di guardia, trascorreva il suo tempo a leggere manuali di sopravvivenza. Avrebbe voluto disporre di una radio o di un mangianastri, ma Widmark ne aveva proibito l’uso in tutta la base. Il colonnello era convinto che la musica rock contenesse messaggi subliminali, tesi a indebolire la volontà dei giovani della nazione, portandoli all’uso di droghe e a pratiche sessuali devianti. Gli uomini della base non dovevano restarne contaminati: quando fosse venuto il momento, sarebbero stati l’ultima linea di difesa del paese e Widmark li voleva svegli, lucidi e puri.
In attesa che la minaccia si concretizzasse, il giovane Brouard si preparava al conflitto sul piano teorico. Era troppo gracile per partecipare attivamente all’addestramento, ma la sua fede nella loro missione gli aveva comunque garantito un compito alla base. Dortmund aveva trovato un ruolo adatto a lui, che non richiedesse particolari prestazioni fisiche.
Così, mentre gli altri venticinque allievi del campo di addestramento si esercitavano attivamente nelle tecniche di guerriglia, Brouard si limitava a studiarle sui libri. Conosceva ormai ottantasei metodi diversi per affrontare e sopprimere un avversario a mani nude, anche se per il momento non aveva avuto alcuna occasione di metterli in pratica. Nondimeno, formava anche lui parte della squadra e, quando il giorno fosse venuto, sarebbe stato pronto a fare il suo dovere di buon americano.
Widmark era stato chiaro: non si poteva abbassare la guardia. Mentre i ragazzi dell’esercito erano impegnati a rimettere le cose a posto in Iraq, a loro toccava vigilare sulla patria. Finalmente alla Casa Bianca c’era un presidente conscio del ruolo degli Stati Uniti d’America nel mondo. Ma nemmeno Bush – cui Widmark aveva spedito varie lettere fornendo preziosi consigli su come gestire la politica nazionale e internazionale – era arrivato a comprendere l’importanza che volontari come loro avrebbero potuto rivestire nella difesa del paese. Il colonnello cominciava a sospettare che le sue lettere fossero state intercettate da qualche burocrate parassita e che il presidente non ne fosse mai venuto a conoscenza. Il che non impediva tuttavia a Widmark di proseguire il proprio lavoro.
Purtroppo, il governo non aveva più dato alcun sostegno economico all’operazione e solo negli ultimi anni il colonnello era riuscito ad avere l’appoggio necessario. Paradossalmente, non l’aveva trovato in patria, ma all’estero: c’erano ancora, in giro per il mondo, alcuni preziosi alleati che credevano negli stessi ideali. Come Eduardo Contreras, che dal suo rifugio in America Centrale proseguiva la lotta al comunismo in tutte le sue forme. Era grazie a lui che Widmark aveva ricevuto i fondi necessari per riprendere l’addestramento del suo manipolo di volontari, giovani americani di razza bianca e di fede protestante, rimasti fedeli alla patria anche nei momenti più bui.
Quel pomeriggio, tuttavia, il nemico sembrava lontano, anche se per un istante il giovane Brouard sperò che stesse per accadere qualcosa: le due sentinelle avevano imbracciato i loro M16A1 e li avevano puntati contro qualcosa o qualcuno in avvicinamento. Il rumore di un motore fu seguito da quello di grosse ruote sulla strada sterrata. Ma non c’erano né talebani né comunisti in arrivo: solo un fuoristrada Suzuki con due persone a bordo, che si fermò davanti al cancello. Dovevano essere i due ospiti la cui visita era stata annunciata da Widmark.
Dal lato del passeggero scese una ragazza con indosso un giubbotto e un paio di jeans. I capelli erano lunghi e scuri, gli occhi nascosti dietro un paio di Ray-ban. L’uomo al volante aveva capelli biondi, con un taglio alla marine.
«Siamo attesi dal colonnello», annunciò la donna.
Brouard si sporse fuori dal gabbiotto. «I vostri nomi?»
«Gomez e Donaldson.»
La ragazza si diresse verso il gabbiotto, seguita dagli sguardi delle due sentinelle. Brouard si sentiva orgoglioso: era riuscito a rubare loro la scena. Per prima cosa, chiamò il capitano Dortmund. «Qui Brouard, signore. Abbiamo al cancello i signori Gomez e…»
«Donaldson», ripeté la ragazza.
«Donaldson», ripeté Brouard, in imbarazzo. Come poteva essersene dimenticato? Ascoltò la risposta del capitano, quindi rispose: «Sissignore.» E premette il pulsante per alzare la sbarra.
Il fuoristrada entrò nell’ampio cortile della base e la sbarra si riabbassò.
Brouard non si rese conto che, in quello stesso istante, le due sentinelle cadevano a terra, inerti, e i loro corpi venivano rapidamente trascinati via. Ma, qualche secondo, più tardi vide la bocca di un silenziatore orientato minacciosamente verso di lui.
«Spiacente, amigo», disse uno sconosciuto, con indosso una divisa identica a quella di Brouard.
La bocca del silenziatore sputò una fiammata e il mondo del soldato Brouard divenne rosso di sangue e, infine, nero come la notte.
2
New Orleans, settantadue ore prima
La Thunderbird di Kyle Darrow lasciò l’Interstate 10 all’uscita 232 e proseguì verso Tulane Avenue. Dopo due settimane di vacanza in Florida, il viaggio verso la Louisiana, di motel in motel, era durato cinque giorni: né Mercy né Kyle, reduci dalla conclusione dell’affare Lovelace a New Smyrna, avevano fretta di rientrare in servizio. E intanto Mercy aveva potuto recuperare almeno in parte la sua forma fisica, dopo che il recente confronto con un bastone ASP le aveva lasciato qualche costola incrinata. Ma la Sezione D non aveva tardato a trovare loro un lavoro da compiere, approfittando della presenza di Mercy Contreras negli Stati Uniti. L’appuntamento era stato fissato per il ventuno aprile, lunedì dell’Angelo, al Patio Downtown Motel.
Kyle Darrow lasciò la Thunderbird nel parcheggio del motel. Avevano già le loro istruzioni. Andarono a bussare direttamente alla stanza numero 18, registrata a nome di un fantomatico signor McFarland.
«Dieci orizzontale», fece una voce dall’interno.
Fu Mercy a rispondere, secondo gli accordi. «Un’erba letale.»
Nightshade.
«Sei sola?» fece la voce dietro la porta.
«Con un angelo custode», aggiunse Kyle Darrow.
Angel.
La porta si aprì. «Buon pomeriggio. Accomodatevi.» L’uomo che si era registrato come McFarland richiuse la porta. «Chiamatemi Doom.»
Nightshade non lo aveva mai incontrato prima di allora, malgrado fosse stato uno dei primi a essere reclutato nella Sezione. Doom, il cui vero nome era ignoto tanto a Mercy quanto a Kyle, sostituiva Iceman, impegnato altrove. Di fatto, l’uomo sembrava uscito da una commedia sugli agenti del governo: sui cinquant’anni, piuttosto robusto, vestiva di grigio scuro e aveva un’espressione rigida sul viso quadrato. Malgrado nella stanza le tende fossero tirate, portava un paio di occhiali da sole neri Persol, forse per nascondere le guance butterate da una brutta acne di parecchio tempo prima, le cui tracce erano visibili anche nella luce soffusa.
Nella stanza, seduto sull’unica sedia, sotto la finestra, c’era invece una vecchia conoscenza, un uomo di cui Angel e Nightshade sapevano solo il nome in codice, Strange. Avevano lavorato nella stessa squadra un mese prima, a Barcellona. «Salve, Nightshade», li accolse questi. «Salve, Angel.»
I due nuovi arrivati ricambiarono il saluto e si accomodarono sui due letti, mentre Doom restava in piedi. Da una valigetta su un tavolino prese tre buste di cartone identiche, sigillate, che porse agli agenti. Mentre attendeva che ognuno di loro lacerasse la propria busta, estrasse da una tasca una confezione di sigari con una scritta in italiano. Ne prelevò uno, lo sfilò dal rivestimento di plastica marroncina e rimosse la fascetta con le strisce bianca, rossa e verde. Quindi prese dalla tasca dei pantaloni un tagliasigari e suddivise il cilindro di tabacco, rastremato alle estremità, in due metà identiche. Ne ripose una nella scatola e si portò l’altra alla bocca, accendendola con un fiammifero.
Nel frattempo, i tre agenti avevano aperto la cartellina all’interno della busta, trovandosi di fronte alla fotografia in bianco e nero di un uomo magro, con radi capelli bianchi, sopracciglia grigie e ispide e uno sguardo severo dietro gli occhiali
«Vi presento il colonnello John A. Widmark», esordì Doom. «Colonnello è il grado cui giunse in Vietnam, ma da allora è fuori dall’esercito. Età: sessantotto. Segni particolari: fanatico. Noi lo conosciamo dai primi anni Sessanta, quando faceva parte dell’equipe di istruttori che prepararono l’invasione della Baia dei Porci. Addestrava esuli cubani nei campi sul Lago Pontchartrain, agli ordini di Clay Bertrand. Poi fu trasferito in Vietnam, in veste di consulente. Dopo la caduta di Saigon, perse la fiducia nel governo e si convinse che avrebbe dovuto salvare l’America da solo. Per vent’anni ha mandato avanti la sua piccola milizia di volontari, sotto la blanda sorveglianza dell’FBI. Non ha mai destato preoccupazioni, fino a qualche anno fa. Nel 1999 ha fatto un autentico salto di qualità: ora vive in una vecchia base militare abbandonata, che ha acquistato con fondi di dubbia provenienza. Nella base ci sono in media una trentina di uomini, presumibilmente ben addestrati. A questo punto l’FBI ha cominciato a drizzare le antenne. Guardate la seconda foto.»
Gli agenti obbedirono. La fotografia era stata scattata in occasione di un arresto e mostrava un uomo con capelli lunghi, barba e baffi neri, di faccia e di profilo.
«Questo individuo va sotto il nome di Dortmund», spiegò Doom. «Quarantatré anni, gavetta in una milizia filonazista, quando ancora non andava di moda radersi a zero i capelli. Per cinque anni, uomo chiave del traffico di armi a Austin, Texas. Dal 2001 vive in Louisiana ed è il braccio destro di Widmark. Secondo l’FBI potrebbe essere responsabile di un paio di raid razzisti finiti piuttosto male. E fin qui, continua a essere materia per i Federali. Ma guardate la foto numero tre.»
Mercy Contreras aprì la bocca in una muta esclamazione. Conosceva l’uomo che appariva insieme a Dortmund nella terza immagine. «Julio Ferguson Ballesteros», mormorò.
«Esatto. Questa è stata scattata tre mesi fa in località Clinton, Louisiana: Dortmund accoglie con un abbraccio il nuovo istruttore, che rimane al campo per ben trenta giorni. Per chi di voi non lo conoscesse, Ballesteros è stato addestratore dei servizi segreti di Manila per diverso tempo, prima di entrare nell’organizzazione di El Almirante nel 1975. Per quanto ne sappiamo, Ballesteros è tuttora uno dei suoi fedelissimi.» Doom rivolse un’occhiata a Mercy, che non disse nulla. Sapeva di lei, era chiaro, ma la politica della Sezione D comportava che non si facessero riferimenti alle vere identità degli agenti in missione.
«Widmark è in contatto con El Almirante?» domandò lei, evitando, quasi per superstizione di dire il nome e il cognome dell’uomo che si celava sotto quella identità. El Almirante era in realtà lo spagnolo Eduardo Contreras Huerta, ex-funzionario della polizia segreta franchista, ex addestratore di guerriglieri per conto della CIA e, soprattutto, suo padre.
Questa è la fine dell’anteprima gratuita.
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