Uno spazio minimo

Uno spazio minimo - Rosalia Messina

L’infanzia è quel territorio pericoloso, mai del tutto efficacemente esplorato, in cui quasi sempre verrà messo a repentaglio il sereno svolgimento di intere esistenze.

Complimenti di vero cuore a Rosalia Messina per questa sua nuova opera.” (Daniela Domenici su amazon.it)

L’infanzia è quel territorio pericoloso, mai del tutto efficacemente esplorato, in cui quasi sempre verrà messo a repentaglio il sereno svolgimento di intere esistenze. Ne sa qualcosa Angelica Alabiso, bambina silenziosa, affetta da quello che i medici chiamano mutismo selettivo. Colpevolmente distratti dalle loro vicende personali, i genitori la ritengono “una bambina difficile”.

Eppure Angelica la silenziosa, Angelica la malinconica procede nella vita a testa bassa, tra conquiste e disillusioni, insopprimibili dolori e ammirevole orgoglio di sé; in questo romanzo dalla scrittura raffinata che si fa esperienza palpitante e composita. Di amori, separazioni, rivelazioni e conquiste professionali che scandiscono il fluire degli anni tra secondo e terzo millennio. Ma solo alla svolta della maternità in età matura – dopo aver perlustrato il passato nelle sue pieghe più oscure – la protagonista riuscirà ad approdare, pur continuando a occupare uno spazio minimo, alla ragionevole felicità cui tutti hanno diritto.

Un libro singolarmente paradigmatico. Una trama, come nello stile di Rosalia Messina, dove al mero susseguirsi dei fatti si sovrappone l’assai più avvincente intreccio di sentimenti, emozioni, prese di coscienza e profondi sussulti dell’animo, attraverso i quali impareremo come per ognuno ci sia un’opportunità di rinascita.

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Uno spazio minimo:

I
UNA BAMBINA TROPPO SILENZIOSA

Angelica, settembre 1963

Tra me e me la chiamo l’orribile strega. Mi sento molto cattiva, ma non posso farci nulla. Vorrei non aver fatto quel sogno, l’estate passata, perché è cominciato tutto da lì. Prima le volevo più bene e mi disperavo perché lei era sempre arrabbiata con me e non le piacevo.

L’anno scorso è nato Germano e non siamo più state solo Marianna e io, che sono la più grande, come ripete sempre la mamma, e lo so che devo essere la più brava perché ho già otto anni, ma l’anno scorso ne avevo solo sette ed ero più piccola e anche ora certe volte mi sento piccola ma non lo dico.

A giugno, quando è finita la scuola, siamo andati a stare a Gibilmanna, in una casa strana dove non c’è nemmeno la luce elettrica e le stanze sono piccole, quella in cui dormo con Marianna è lunga e stretta, però ci sono una terrazza e un giardino grande che per esplorarlo tutto ci ho messo tanti giorni. Il posto più bello è quello dove stanno il pozzo e il sedile di pietra, per arrivarci si deve camminare sotto un pergolato. Se si continua ad andare avanti si incontra una discesa e poi mi pare di trovarmi in un paesaggio dei miei libri di favole illustrate, perché c’è un ruscello di acqua trasparente e fredda. Mancano soltanto i principi avvolti nei mantelli e le principesse e i draghi e i folletti, ma per questo ho la mia magia segreta, il mio laccio che fa tanto arrabbiare la mamma e io non capisco perché. A volte trova il laccio, che si chiama Bric e solo io so il suo nome, nel mio letto, sotto il cuscino. Allora la mamma mi guarda con gli occhi cattivi. Ma anche se mi fa tanta paura non riesco a fare a meno della mia magia. Non posso giocare sempre con i Lego, mi piacciono tanto ma in certi momenti voglio vivere nelle favole che leggo e allora il mio amico laccio si comporta benissimo e diventa… può diventare qualunque cosa, un animale, una fata, insomma… è vivo, ecco. È vivo e mi parla. E io pure gli parlo ma dentro la mia testa, e tutt’e due ripetiamo le parole delle favole e anzi ne aggiungiamo altre e cambiamo un pochino le storie, per esempio i personaggi simpatici non soffrono tanto e quelli cattivi invece sono sconfitti subito. Poi a volte chiedo al mio amico laccio di inventare una storia nuova. Allora lui per un po’ ci pensa su e poi si trasforma e mi dice, per esempio, buongiorno, principessa, sono il vostro umile scudiero. Allora io gli ordino di fare quello che desidero e Bric obbedisce, mi fa salire su un cavallo bianco e sta ad aspettare mentre vado in giro al galoppo. Quando la mamma non mi controlla ci raccontiamo favole lunghissime, io e il laccio magico, poi se la sento arrivare lo faccio sparire, me lo infilo in tasca e lei mi rimprovera perché sto a… come dice? Bighellonare, dice. Che bella parola, però significa una cosa brutta, una cosa che alla mamma non piace.

Ma perché non vuole sapere a cosa mi serve il laccio? Non mi fa domande, chissà cosa immagina, devono essere cose molto cattive quelle che pensa lei. Mi piacerebbe spiegare per bene che non facciamo nulla di male io e Bric, che lui non è un semplice pezzo di spago, che c’è una magia, ma non sono sicura di essere capace di dirlo bene.

Mentre dormo, qualche volta, mi trovo nelle favole che con Bric ho inventato di giorno. E una notte ho sognato – mi ricordo tutti i particolari anche se è passato più di un anno − un incontro tra un principe e una principessa. E sono io, la principessa. Con le trecce, il diadema e l’abito lungo svolazzante corro sotto il pergolato. Ho un appuntamento segreto. Nessuno sa, nessuno deve sapere che il principe mi aspetta oltre il pozzo, vicino al ruscello. Ma quando sto per raggiungerlo, quando lo vedo avanzare verso di me sorridendo, arriva una donna vestita di nero. Si mette in mezzo e non mi fa andare avanti. È una strega, sono sicura. È come se dagli occhi le uscissero fiamme. Il principe sparisce e mi sveglio. Che paura. L’orribile strega, mi viene subito in mente di chiamarla così, è mia madre, l’ho riconosciuta appena l’ho vista perché ha gli occhi duri che mi rimproverano.

Angelica, dicembre1963

La mia scuola è gialla (papà dice giallo ocra) e l’aula è stretta, lunga e buia, con una sola finestra. In certe giornate d’inverno si deve tenere acceso il neon sulla parete alle spalle della cattedra, proprio sopra il crocifisso. La maestra tiene accesa una stufetta elettrica ma il calore arriva solo alle fortunate della prima fila. Io sono troppo alta e mi tocca stare indietro.

«Alabiso, leggi tu la poesia a pagina quindici del libro di lettura.»

La maestra Grasso è una donna anziana, vestita sempre di scuro, con i capelli grigi e la gobbetta. La sua voce rauca è sempre gentile.

Mi alzo in piedi e apro il libro.

E poi è come se fossi stata per un po’ da qualche altra parte, la maestra mi sta chiamando e io non capisco che succede: perché tutti mi fissano? Perché la maestra si è avvicinata e mi sta chiedendo se sto bene?

Dico di sì, ma solo muovendo la testa.

«Leggi, su» ripete con il tono che hanno i grandi quando perdono la pazienza.

E poi accade di nuovo ma stavolta lo sento, sento che apro la bocca e non esce la voce. Che paura, sento la faccia calda, caldissima come quando ho la febbre. La voce se n’è andata.

«Siediti» dice la maestra. Guarda Franchi, la bambina del banco davanti al mio, bravissima con i numeri, i ricci e gli occhi grandi neri neri, sempre seria però non triste. «Leggi tu» le ordina la maestra senza più occuparsi di me.

Abbasso lo sguardo, vorrei diventare invisibile.

Che ore strane, mi sento come un pesce in un acquario, sono qui, vedo e sento tutto senza guardare nessuno, fisso il pavimento e non parlo. Durante la ricreazione resto ferma al mio posto, senza tirare fuori dalla cartella il panino con la marmellata. Del cibo la mamma non si dimentica mai.

La maestra si avvicina, mi tocca la fronte.

«Misurati la febbre, quando torni a casa» dice piano.

Faccio sì con la testa, dondolo i piedi e non alzo gli occhi dalla punta delle scarpe. Tornare a casa mi fa paura. Decido di non raccontare ai miei genitori cosa è accaduto oggi. Sono certa che si arrabbierebbero. Già non piaccio a nessuno dei due…

Quando suona la campanella e andiamo via la voce è tornata, posso salutare. Lo faccio continuando a tenere gli occhi bassi, certa che niente sarà più com’era prima e che non sono uguale alle altre bambine.

Maria, febbraio 1964

Angelica oggi ha la febbre. Certo che le succede spesso, molto più spesso che a Marianna e Germano. Nemmeno toglierle le tonsille è servito, il mal di gola le viene lo stesso e si è fatta magrolina e pallida. Era una bimba rotondetta e colorita fino a qualche anno fa, poi crescendo si è fatta più delicata. Mi dà un gran da fare, Angelica, e tante preoccupazioni.

Le ho preparato il latte caldo con il miele dentro, ma solo dopo molte insistenze sono riuscita a fargliene mandare giù mezza tazza. Ha fatto un sacco di storie, di mangiare qualcosa di solido proprio non se ne parla. Poi ho messo sul letto i suoi libri di favole ed è stata quieta per un bel pezzo.

Sono così stanca, a volte. Quando mi sono sposata pensavo che tutto sarebbe cambiato nella mia vita e che dopo le brutte esperienze di prima – la guerra, i genitori persi molto presto – sarei stata felice.

Certo che non è andata proprio come mi aspettavo, però. Anche se le difficoltà economiche che avevamo all’inizio le abbiamo superate presto, anche se Pietro ha un ottimo lavoro, anche se abbiamo tre figli e una bella casa, non posso dire di essere felice.

La mia prima gravidanza è andata male, si è protratta troppo e alla fine il bambino era già morto quando finalmente ho partorito. Certo che è stato un brutto colpo, proprio non l’avevo messo in conto che potesse andare così. Sono un’ostetrica e avrei dovuto immaginare le complicazioni e invece m’illudevo che non avrei avuto problemi. Per fortuna Angelica è arrivata poco dopo un anno ed era una bella neonata robusta. Avevo tanta paura che si ripetesse il disastro del primo parto. E poi è nata Marianna. Per avere Germano ho dovuto insistere con mio marito, diceva che di un figlio maschio non sentiva il bisogno e che sarebbe potuta arrivare un’altra femmina. Ma io me lo sentivo che sarebbe stato un maschio. Certo che non avevo considerato la fatica di tirar su tre bambini, soprattutto quando uno di questi bambini è difficile come Angelica.

La famiglia di Pietro, almeno la famiglia più stretta, cioè sua sorella Armida e la zia Gianna, che li ha allevati, non ha mai smesso di essere un problema. E la cosa peggiore è che lui non la vede così e io non so con chi parlarne per sfogarmi.

«Non abitiamo neppure nella stessa città e ci vediamo solo per le feste comandate, se dicono qualcosa che non ti suona bene fai finta di non sentire» mi esorta infastidito.

È sempre così, con Pietro. Solo se un argomento gli interessa è capace di parlarne a lungo, e allora spiega le cose con tutti i particolari, come se tenesse una lezione.

«Sei nato professore» gli dice ogni tanto suo cugino Renato. E lui ridacchia, perché gli fa piacere essere come è.

Una famiglia di sapientoni, la sua. Erano molto poveri, ma lui e sua sorella sono riusciti a studiare, a laurearsi. Lui non ne parla volentieri e all’inizio pensavo che volesse tenere lontani i brutti ricordi: la perdita dei genitori, avvenuta molto presto, e gli anni tristi in cui lui e Armida scansarono l’orfanotrofio grazie alla zia Gianna. Dev’essere stata dura, e non solo per la miseria, certo che la zia Gianna è una persona tremenda, una tiranna, una vera strega. Brutta di corpo e di cuore, non sorride mai, non parliamo di ridere, sempre con la bocca serrata e quando la apre esce veleno. Poveri bambini, tirati su da una con quella faccia. Però poi ho cominciato a capire che non è il dolore che mio marito vuole dimenticare, no, è soprattutto la vergogna della miseria, mentre mia cognata, al contrario, delle origini umili e di essersi laureata tra gli stenti è molto orgogliosa e lo sbandiera ogni volta che può, anche quando non c’entra niente. Molte cose le ho sapute proprio da lei, che mi guarda dall’alto in basso, come se non fossi anche io un’orfana che s’è fatta da sé. Certo che non ero una senz’arte né parte al tempo in cui conobbi Pietro. Mi ero diplomata ostetrica e mi mantenevo da sola. Peccato che Pietro non abbia voluto che continuassi a lavorare.

La prima volta che andai a casa loro Armida fu calorosa, ma siccome non ha personalità e si conforma in tutto a quello che pensa e che dice la zia, quando la vecchia cominciò a ostacolarci cambiò atteggiamento pure lei. E io non riesco a perdonarglielo, né riesco a ignorarla come suggerisce Pietro, che poi predica bene e razzola male: quando le sente dire una delle stupidaggini che è capace di tirare fuori la strapazza senza riguardi. Certo che di solito fra loro si limitano a parlare di argomenti tranquilli, sono io quella che discute e litiga con lei ogni volta che c’incontriamo. Che frecciate le escono di bocca, anche se mantiene sempre l’espressione da santarellina. Ipocrita! Con la zia Gianna evito gli scontri, però, dopo aver ingoiato fiele per una frase che la vecchia strega mormora in modo da farmela sentire, sono così nervosa che esplodo con i bambini per ogni sciocchezza.

In questa famiglia mi criticano per un sacco di cose: perché mi faccio aiutare nei lavori di casa da una ragazza di campagna, perché secondo loro sono una spendacciona. Se compro un bel vestito ad Angelica, Armida dice che la vizio, che così non capirà mai il valore del denaro. Che ne sa lei, di come si tirano su i figli? Pensa di potermi dare lezioni anche su questo, solo perché insegna? Certo non è la stessa cosa allevare figli e stare a parlare con ragazzi grandi dalle otto e mezza all’ora di pranzo per poi tornarsene a casa. Ma che se ne stia fra i suoi libri, la professoressa Alabiso, con il suo greco e il suo latino.

La cosa più grave però è un’altra. È che con il tempo io non sono più sicura di capire cosa passi per la testa di mio marito e se sia felice o no. Voleva che tutto in famiglia fosse al suo posto, che io stessi a casa a mettere ordine, cucinare e aspettare lui e i bambini. Certo che io ho fatto del mio meglio, buon Dio, faccio ogni giorno del mio meglio, ma a volte mi sento prigioniera in mezzo alla scontentezza di tutti, compresa la mia. Angelica, poi, mi stanca da morire. Mi sfiniva quando parlava tanto, con tutte quelle domande, perché questo, perché quello, perché perché perché. Per fortuna le è sempre piaciuto leggere, le ho comprato tanti libri e così almeno quando legge sta in silenzio e io posso far riposare le orecchie e la testa. Le ho messo presto in mano una lavagnetta …

Questa è la fine dell’anteprima gratuita. 

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